mercoledì 17 febbraio 2010

L'ultima notte di Bedò

C’è una piccola chiesa, dedicata a San Francesco, in contrada Odi, a Faicchio, non lontano da San Salvatore Telesino, un piccolo paese in provincia di Benevento, nell’entroterra campano. E c’è una lapide, posta sulla facciata anteriore della cappella, che ricorda un massacro rimasto tuttora impunito. E, sulla lapide, c’è scritto: “IL LORO ASSASSINIO INUMANO E FEROCE ACCRESCA IN NOI L’ORRORE DELLA GUERRA e ALIMENTI LA FIAMMA DELLA LIBERTÀ E DELL’AMORE. MENEO FERDINANDO DA FAICCHIO DI ANNI 67, BOVE BENEDETTO DA SAN SALVATORE TELESINO DI ANNI 19, DUSMET DE SMOURS FRANCESCO DA NAPOLI DI ANNI 18, PEZZATO ALDO DA NAPOLI DI ANNI 18, DE LEVA ROSARIO DA NAPOLI DI ANNI 16. TRUCIDATI IN QUESTA CAPPELLA DI SAN FRANCESCO IN FAICCHIO IL 15 – 10 – 1943”.
Pezzato Aldo, figlio di Leone Pezzato e Coppola Carmela, nato il 20 Agosto 1925 da Napoli di anni 18 era mio zio, ma io non ho mai avuto la gioia di conoscerlo di persona. Nei giorni angosciosi e terribili della guerra, per sfuggire ai bombardamenti e alla fame, i miei nonni materni con i figli Antonio, Aldo, Luigi, Maria ed Elena, mia madre, si erano rifugiati a San Salvatore Telesino, affettuosamente ospitati da Luigi Coppola, un fratello di mia nonna.
Nell’Aprile del 2005, in occasione del 60° anniversario della Festa della Liberazione, nel tentativo di ricostruirne la memoria e la figura e di strappare all’oblio inesorabile del tempo il ricordo di mio zio, ho scritto un breve testo, pubblicato On line da L’Unità e che qui riproduco.

Mio zio Aldo per liberarsi trovò la morte
Aldo Maiorano
Cara Unità, nella mappa delle stragi naziste, compiute in Italia tra il 1943 e il 1945, c´è un luogo sicuramente poco noto: si chiama Faicchio. Qui, a circa 5 km da San Salvatore Telesino, in provincia di Benevento, si compì un eccidio ad opera dei nazifascisti, forse un eccidio minore, dimenticato, ma non meno crudele ed efferato. Nella piccola Cappella di San Francesco, ai margini del paese, fu ritrovato il corpo di mio zio Aldo Pezzato, trucidato, poco più che diciottenne, insieme a tre suoi compagni di sventura. Era il 14 Ottobre 1943. Io sono nato 14 anni dopo. Di quello zio, che non ho mai potuto conoscere, porto il nome e conservo il ricordo, in larga parte tramandatomi da sua madre e mia nonna materna. Ho deciso di raccontare questo lontano episodio, dopo una lettera inviata ad "Avvenimenti" nel 1997 che non ho mai saputo che fine abbia fatto, solo oggi, nel sessantesimo anniversario della Festa della Liberazione. Mi sembra un episodio degno di essere segnalato a chi lo ignora o ricordato a chi, nel frattempo, l'ha dimenticato.
Nell'ottobre del 1943, di fronte all'offensiva anglo-americana, l'esercito tedesco batteva in ritirata dal Sud verso il Nord. Era già stato firmato l'armistizio dell'8 Settembre e gran parte del territorio italiano, da Napoli alle Alpi, cadde sotto l´occupazione nazista. Essa fu alquanto dura e feroce, anche per il particolare spirito vendicativo che connotò la condotta tedesca contro la popolazione italiana, ex-alleata in guerra. L'ordine impartito da Keitel il 17 settembre del 1943 disponeva "il trasferimento coatto della popolazione maschile", trascinata verso Nord per essere utilizzata come manodopera per il fabbisogno tedesco, con inflessibile uso della violenza ad ogni minima resistenza. Anche la sorte di mio zio e dei suoi compagni fu segnata da questa decisione. Il 9 Ottobre 1943 egli fu preso in ostaggio con altri 127 uomini rastrellati a San Salvatore Telesino e tutti furono trasportati a Piedimonte d'Alife, dove furono rinchiusi, per qualche giorno, nel carcere locale. Probabilmente da lì mio zio scrisse ai suoi genitori - i miei nonni materni - l'ultima lettera della sua vita, datata 11 Ottobre 1943, in cui li pregava di non stare in pensiero «perché, per il momento, stiamo tutti bene» e si accomiatava da loro con queste parole «Ci rivedremo presto e saremo felici». I 128 uomini riuscirono a fuggire in qualche modo dal carcere di Piedimonte d'Alife e fecero marcia indietro, inseguiti dai tedeschi, verso San Salvatore Telesino, attraverso la via delle montagne circostanti. Tutti tornarono a casa, tranne i quattro che avevano tentato la fuga – com'è stato successivamente ricostruito – per una via più breve e veloce. Mancarono per sempre all'appello: mio zio Aldo Pezzato, Rosario de Leva (unico figlio del musicista napoletano Enrico de Leva), Franco Dusmet e Benedetto Bove. I loro corpi, ammucchiati l'uno sull'altro, furono trovati nella piccola cappella di San Francesco, nei pressi di Faicchio, dove si erano rifugiati e dove i fucili tedeschi li trucidarono a morte senza pietà. Era il 14 Ottobre 1943. Né a mio zio né ai suoi compagni fu concesso di rivedere i propri cari. Mio zio era nato il 25 Agosto 1925. Era iscritto all'Azione Cattolica. Non fu un partigiano, né un martire consapevole della Resistenza, ma, anche lui, come tanti innocenti, pagò con il sacrificio della propria vita il prezzo più alto alla violenza e alla barbarie che il nazifascismo aveva scatenato in Italia e in Europa in quegli anni.
Pubblicato il: 21.04.05
Modificato il: 21.04.05 alle ore 19.12
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Nel frattempo, dopo la morte di mia madre, sono venuto a conoscenza di un altro documento, che a me pare particolarmente significativo e di cui prima ignoravo l’esistenza. Si tratta del riconoscimento della qualifica di partigiano, conferita a mio zio Aldo Pezzato, caduto per la Lotta di Liberazione … in Faicchio, dalla Commissione presieduta da Antonino Tarsia e firmata dal Dott. Pietro Amendola, Segretario Provinciale dell’ANPI di Napoli (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) in data 18 Aprile 1947.


Di recente, infine, sulla vicenda dei quattro sfortunati ragazzi deportati dai tedeschi, è stato finalmente pubblicato, nel settembre 2008 da Vereja edizioni, un bellissimo libro. Si tratta dell’ultima opera e del primo testo narrativo di Emilio Bove, medico di famiglia a San Salvatore Telesino, giornalista e scrittore. Il titolo, alquanto suggestivo, è L’ultima notte di Bedò, eroe protagonista di una storia vera e di una vicenda realmente accaduta, con pochi e marginali elementi concessi alla fantasia. Al racconto, 144 pagine dense e avvincenti come un romanzo ma con riferimenti a fatti, persone o cose assolutamente non casuali e fedeli alla cronaca di quei giorni e di quegli eventi dell’autunno del 1943, è allegato un Dossier di 80 pagine con documenti, immagini e testimonianze che hanno ispirato il racconto. Presentato al pubblico l’8 Novembre 2008 presso l’Abbazia Benedettina del Santo Salvatore a San Salvatore Telesino (BN), dal libro di Emilio Bove è stata tratta anche una performance teatrale (dialoghi, narrazioni, immagini, scene filmiche, danze e musiche), per la regia di Mariella De Libero, dell’Associazione Culturale Libero Teatro, messa in scena il 5 Agosto 2009 nel Cortile dell’Ex Municipio di San Salvatore Telesino, con oltre quaranta artisti tra attori e ballerini e che ha riscosso un notevole successo di pubblico.
Aldo Maiorano

lunedì 15 febbraio 2010

Aldo Maiorano: “L’assenza di inganno e mistificazione è già terapeutica” A Marco Lombardo Radice e a tutti i… “raccoglitori nella segale”


“L’assenza di inganno e mistificazione è già terapeutica” A Marco Lombardo Radice e a tutti i… “raccoglitori nella segale”

“- Sai cosa mi piacerebbe fare? – dissi. – Sai cosa mi piacerebbe fare? Se potessi fare quell’accidente che mi gira, voglio dire.
- Cosa? Smettila di bestemmiare.
- Sai quella canzone che fa “Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno?” Io vorrei…
- Dice “Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno” – disse la vecchia Phoebe. – È una poesia. Di Robert Burns.
- Lo so che è una poesia di Robert Burns.
Però aveva ragione lei. Dice proprio “Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno”. Ma allora non lo sapevo.
- Credevo che dicesse “E ti prende al volo qualcuno”, - dissi. – Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia.”
-
“Il giovane Holden”, protagonista del romanzo e personaggio “ormai famoso e proverbiale” non solo negli Stati Uniti, “eroe eponimo di tutta una generazione”, fu il titolo scelto dalla casa editrice Einaudi, nel 1961, per l’ormai celebre capolavoro di J. D. Salinger. Il titolo originale del libro, pubblicato nel 1951, era, tuttavia, “The Catcher in the Rye”, forse traducibile in italiano con “L’acchiappatore nella segale” o “Il raccoglitore nella segale”.

“Il raccoglitore nella segale” è anche il titolo di uno degli scritti di Marco Lombardo Radice (Roma 1949 – Pieve di Cadore 1989), poi raccolti postumi nel volume “Una concretissima utopia”, pubblicato nel 1991 da Linea d’Ombra a cura di Marino Sinibaldi, che si conclude riportando proprio una celebre frase del Giovane Holden di Salinger. Figlio del matematico Lucio Lombardo Radice e nipote di Pietro Ingrao, Marco Lombardo Radice, medico specializzato in neuropsichiatria infantile, si dedicò nella sua vita, sia nella sua attività di ricerca che in quella clinica e professionale, alle problematiche dei bambini e degli adolescenti e del disagio mentale in età evolutiva. Allievo di Giovanni Bollea e, già giovanissimo, Direttore del reparto adolescenti dell’Istituto romano di neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli, nel 1984 fonda l’Associazione per il sostegno e il trattamento di minori con problemi psicologici e psichiatrici. Autore di testi e saggi scientifici, tra cui “Fra ragione e passione: cura e costrizione nel trattamento psichiatrico dei minori”, “Crisi ed emergenza: il senso dell’intervento”, “Sul concetto di crisi in età evolutiva” (con A. Giannotti e C. Saccu), “Adolescence and Perversions” (con M. Grasso), eclettico e creativo, si dedicò anche alla narrativa e all’esperienza letteraria, pubblicando con Lidia Ravera “Porci con le ali” (Savelli, 1976), “Cucillo se ne va” (Savelli, 1978), “Lavoro ai fianchi”, con Luigi Manconi (Mondatori, 1980), curando, altresì, la pubblicazione di “Memorie. Dalla clandestinità un terrorista non pentito racconta” (Savelli, 1981).
Alla memoria di Marco Lombardo Radice e ispirato alla raccolta postuma di “Una concretissima utopia”, è dedicato il film di Francesca Archibugi “Il grande cocomero” (1993), in cui Sergio Castellitto, con sensibilità e intensità, interpreta il personaggio di Arturo, neuropsichiatria infantile antiaccademico e problematico, ispirato alla figura di Marco Lombardo Radice, morto d’infarto a soli quarant’anni nel 1989.
Lidia Ravera, con la quale aveva scritto “Porci con le ali”, lo ricorda così, in un articolo pubblicato su L’Unità, col titolo “Io e Marco con le ali”:
“Marco era una montagna d’uomo: un corpaccione imponente coronato da una testa di ragazzo, ricciuta, un viso dai lineamenti, paradossalmente, delicati…pareva sempre appena alzato dopo una notte trascorsa in un pagliaio, la camicia pulita e stropicciata, fuori dai calzoni, fluida, come fosse
dotata di una propria anarchica forza di reazione alle regole dell’abbigliamento… “Marco è morto d’infarto nel 1989, un giorno di luglio, mentre era in montagna con la sua ex-moglie, Marina. Al suo funerale, in un piccolo cimitero vicino a Cortina, l’unico ad avere più di 40 anni era Pietro Ingrao, lo zio. Eravamo, noi, tutti trentenni, e c’erano fra noi molti giovanissimi, devastati dalla disperazione: erano i ragazzi di cui, a vario titolo, Marco si occupava. I ragazzi che amava. Psichiatra, guru, maestro, padre, fratello, compagno. Non ho mai visto tanta gente tanto giovane e tanto infelice al funerale d’un uomo”….”Marco ascoltava i più giovani. Aveva un modo di ridere, pronto e severo. La sua generosità era assoluta, totale…era per i più fragili, quelli che rischiavano di restare indietro, i sofferenti, anime appena sgusciate dal guscio sottile di infanzie poco protette o martoriate. Era una vocazione, ed era una professione”.

venerdì 5 febbraio 2010

Biografia di Luigi Pezzato

Luigi Pezzato, scultore e pittore, ideatore e fondatore del movimento Agricolarte, nacque a Napoli il 10 Maggio 1931, da Leone Pezzato (? - 1943) e Coppola Carmela (1891-1975), insieme ai fratelli Antonio (1921-1990) Aldo (1925-1943) e alle sorelle Maria (1927-1999 ) ed Elena (1932-2003 ).
In un suo raro e breve scritto autobiografico, rievocando i “periodi angosciosi della prima gioventù, vissuta sotto il segno tormentoso” della guerra, dei bombardamenti e dell’ultima eruzione del Vesuvio, annotò i due eventi più significativi che si incisero nella sua memoria di preadolescente: la morte del padre, a soli 52 anni, “accanito fumatore, per una banale broncopolmonite a quei tempi incurabile per la mancanza di medicinali appropriati e con un’ulcera allo stomaco” e la morte del fratello Aldo, appena diciottenne, “trucidato dai tedeschi in ritirata”, assieme ad altri suoi coetanei, eventi entrambi avvenuti a San Salvatore Telesino, “dove eravamo stati ospitati affettuosamente da uno zio, fratello di mia madre”. Accanto a tali eventi luttuosi rievocò altre immagini che, in modo altrettanto indelebile, s’impressero nella sua memoria: reduci da San Salvatore Telesino a Napoli, nella casa natia alla Via della Piazzola al Trivio 18, la figura di “mia madre affranta dal dolore”, quella delle due sorelle Maria ed Elena, “l’una seconda e l’altra ultima di cinque fratelli, (il primo dei cinque, Antonio, era in marina), la distesa di case e casupole, caserme e ciminiere che si stendevano fino alle falde del vulcano”, osservate dal balcone della casa. “Era il 1945. Mia madre lavorava di cucito e come unico sostegno, malgrado fosse brava e avesse clienti a Benevento, Roma e Napoli “smazzava” fino alle 4 di mattina sulla sua macchina da cucire per finire in tempo le ordinazioni che poi doveva consegnare secondo le date stabilite. Andava fiera del suo lavoro sia per le soddisfazioni che le procurava sia perché riusciva a soddisfare le esigenze della famiglia”.
“Abbiamo continuato ad abitare l’appartamento al V piano fino al terremoto del ’62. Il palazzo di proprietà della ditta M. Herb, che produceva semi e brevetti di nuovi esemplari di piante e di cui mio padre e mio nonno erano i direttori e ricercatori, fu abbattuto poco tempo dopo e al suo posto ce n’è ora un altro”.
Sempre in questo suo scritto, così egli descrisse il suo successivo percorso umano e artistico:
“Frequentavo la II media con scarso profitto e interesse e fui sul punto di andare a bottega; poi, uno zio scorse un manifesto della scuola d’arte di piazzetta Salazar e nel ’47 mi ci iscrissi. Ho frequentato la scuola fino al magistero e nel ‘54/’55 ebbi il primo incarico di Aiuto-Laboratorio”.
Frequentò l’Istituto d’Arte di Napoli dal 1947 conseguendo prima la Licenza del Corso Superiore dell’Istituto Statale d’Arte di Napoli – Sezione “Arte dei Metalli” e, successivamente, nell’anno scolastico 1953-1954, il Diploma di Abilitazione all’insegnamento artistico “Arte dei Metalli” negli Istituti e Scuole d’Arte.
Dal 13 Ottobre 1954 prestò servizio in qualità di aiuto-laboratorio nella Sezione Metalli dell’Istituto d’Arte di Napoli, riportando la qualifica di Ottimo per il servizio ininterrottamente prestato negli anni scolastici 1954-1955, 1955-1956, 1956-1957, 1957-1958 fino al 31 Marzo 1959, data in cui tale incarico venne a cessare a seguito di dimissioni volontarie.
Dall’Ottobre 1959 fu insegnante incaricato di Disegno Professionale nella Sezione Metalli dell’Istituto d’Arte di Napoli, dove insegnò fino al termine del 1984, anno in cui rassegnò le sue dimissioni per motivi di salute.
Partecipò, fin dal 1951, con le sue opere a diverse mostre d’arte, nazionali e internazionali, collettive e personali, in gallerie pubbliche e private, per complessive 50 presenze, ricevendo segnalazioni favorevoli sia sulla stampa che in televisione.
Hanno scritto di lui 25 critici d’arte, tra i quali Lionello VENTURI, Filiberto MENNA, Achille BONITO OLIVA, Lea VERGINE, Giorgio DE MARCHIS, Nino MASSARI, Angelo TRIMARCO, CASTELLANO (Luca), Tommaso TRINI, Topazia ALLIATA, Giusi BENIGNETTI, Lara V. MASINI, Maria PADULA, Paolo RICCI, Vittorio RUBIN, Arturo BOVI, Giuseppe GATT, Gianni CAVAZZINI, Oscar DA RIZ, Sandro MORICHELLI, Piero GIRACE, Virgilio COLETTI, Vitaliano CORBI, Ciro RUJU, Giorgio TEMPESTI, Gianni CONTESSI , Luciano CARUSO, Maurizio FAGIOLO DELL’ARCO e altri..

Nel 1953 gli venne assegnato il 1° premio per il concorso “La Ricostruzione del Mezzogiorno”, indetto dalla Camera Industria e Commercio di Napoli.
Nel 1954 gli venne assegnato il 1° premio “La Precisa”.
Espose sue opere alla “IX Triennale di Milano” del 1951, alla “I Rassegna d’Arte Figurativa” di Napoli del 1956, alla “II Biennale Internazionale del Bronzetto” di Padova del 1957, alla Mostra del “Premio d’Arte Figurativa Il Titano” (San Marino) nel 1958, al “Premio del Ministero della Pubblica Istruzione” presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1961, alla “III Mostra Internazionale di Arte Contemporanea” a Capri nel 1962, alla “II Biennale d’Arte del Metallo” a Gubbio nel 1963, alla “III Mostra Nazionale Arte Sport” di Firenze nel 1963, a Palazzo Cerio per il Premio “Selezione Capri” nel 1963, alla “I e II Rassegna Napoli – Campania” nel 1965 e 1966 presso il Padiglione Pompeiano nella Villa Comunale di Napoli, alla Modern Art Agency di Napoli, nel giugno e nel dicembre 1966 (Mostra Collettiva e Personale), alla “II e III Rassegna d’Arte nel Mezzogiorno” di Napoli nel 1967 e 1968. Nel 1967 espose le sue opere alla Galleria “L’Obelisco” di Roma (“La Luce”), alla Libreria Guida di Napoli (“L’oggetto e l’immagine”), alla Mostra itinerante “Strutture organizzate”, alla Fifteen International – La Modern Art Agency al X FESTIVAL DEI DUE MONDI di Spoleto, al XVIII Premio Avezzano “Proposte uno” ad Avezzano (Premiato), alla Mostra “Lido Azzurro” di Torre Annunziata, alla Mostra Internazionale Pittura “Conca Verde” di Massalubrense (Premiato), alla Mostra Collettiva presso la Modern Art Agency di Napoli, alla Mostra “L’ Era Spaziale” presso la Galleria “L’Obelisco” a Roma. Nel 1968 partecipò alla Mostra del Metallo presso la Galleria “Il Cerchio “a Roma, espose alla Galleria Contemporaine Laronge a Geneve, al “Premio Biennale Nazionale di Pittura” a Passignano sul Trasimeno, ad “Arte in Campania – Ricognizione”, alla Mostra Personale alla Galleria Il Bilico a Roma, alla Mostra Collettiva presso la galleria del “Teatro Instabile Napoli (tin)” a Napoli, a 2001 Gavina a Roma, alla Biennale d’Arte del Metallo di Gubbio. Nel 1970 sue opere furono presentate alla Mostra Personale alla “Galleria Oggetto” a Caserta, alla “V Rassegna Grafica Italiana” a Napoli, al “X Concorso Nazionale del Mobile” di Trieste per una “Proposta di metodologia globale della progettazione”, dove vince il primo premio, alla “VI Biennale d’Arte della Ceramica” a Gubbio (premiato per il progetto “Proposta di metodologia globale della progettazione” con medaglia speciale), a “Nuova Tendenza 4”, alla Gallerija Grada di Zagabria.
Progettò e realizzò una Spazio-Struttura in acciaio inox speculare per la sede della Olivetti di Copenhagen.
Nel 1971 partecipò alla Mostra collettiva degli Artisti dello Studio di Arti Visive “Oggetto” a Caserta Vecchia. Suoi lavori di pittura e scultura si trovano presso collezionisti privati ed Enti Pubblici, quali l’Ente Provinciale Turismo e la Camera di Commercio di Napoli, … Altri suoi lavori si trovano presso la Cappella Alunnato nella Basilica di San Paolo a Roma, presso l’altare maggiore della Chiesa M. S. del Carmine al quadrivio di Arzano (Napoli) e presso la Chiesa S. Trofimena a Minori in provincia di Salerno, (Via Crucis in bronzo).

“Ebbi a maestri Ennio Tomai e Romolo Vetere, sia l’uno che l’altro ottimi scultori ma poco interessati alle vicende sociali, una sorta di scultura prevalentemente fondata sulla pratica espressiva. I miei lavori, che conducevo in disparte allo studio del Calascione, erano contro corrente e le poche volte che li ho sottoposti al parere dei miei maestri non hanno riscosso approvazione. Il Prof. Gelli chiamava quei bronzi ”chiavistelli”. La prima affermazione di un certo rilievo l’ottenni nel ’52 allorché partecipai ad una biennale del Bronzetto di Padova e il mio lavoro fu lodato da Lionello Venturi e da altri critici che lo definirono ‘gestaltico’. Fu teletrasmesso assieme a sculture di Archi……di Arp e meritò un premio. La cosa mi inorgoglì parecchio e nel contempo mi sprofondò in un’angoscia perché non sapevo da che parte rivolgermi per colmare l’ignoranza che mi si era rivelata all’improvviso, non sapendo dare senso agli apprezzamenti che mi erano venuti da più parti. Fino al ’66 mi sono logorato in una ricerca che ritengo la più significativa per pregnanza di contenuti, seppure condotta sul filo dell’intuizione e della riflessione ma senza possibilità di confronti, in quanto il quadro culturale allora emergente era costituito da mostre alla “Galleria Medusa” di Via Chiaia dove vi si succedevano personali di Vespignani, Guttuso, De Stefano al “Blu di Prussica” di Via dei Mille dove ho visto per la prima volta Augusto Perez, alla galleria “Il Centro” nella quale la migliore avanguardia presentava la corrente informale, mentre al “Circolo degli Artisti” di Piazza Trieste e Trento, fra mostre di maestri dell’ultimo novecento, imperversava Roberto Pane che teneva conferenze alle quali puntualmente intervenivano signore con cappelli firmati che non stavano ferme un momento; sicché era ancora più difficile seguire l’oratore lungo il filo del suo discorso.
Nel quadro culturale napoletano, caratterizzato da mostre di pittori dell’ultimo ottocento, dal nuovo realismo e dall’informale non avevano riscontro certo le costruzioni razionali che il sottoscritto andava collezionando. Certamente, però, ad una rilettura critica di quanto si andava proponendo, deve essermi saltata alla coscienza l’esigenza di mediare le due tendenze allora in essere: il razionale da una parte e l’informale dall’altra. Sono di quel periodo, infatti, le costruzioni cubiche di ordine/disordine.
Nel ’65, invitato alla mostra che la Promotrice S. Rosa organizzò nella sala Pompeiana alla villa Comunale, esposi un’opera costituita da un insieme strutturale di forme esaedriche: massa-spazio, rumore-silenzio, luce-ombra, di chiara marca gestaltica e di impianto linguistico inequivocabile. Gli oggetti esposti a questa mostra sollecitarono l’attenzione di critici napoletani quali la Sig.ra Lea Vergine la quale si dimostrò subito interessata a tale produzione.
È il periodo nel quale Ella con Enzo Mari era intenta a dare vita alla rivista “Linea struttura” che ebbe vita breve (un solo numero pubblicato). Nello stesso periodo venivo contattato dal critico d’Arte del Mattino Filiberto Menna, per mezzo del gallerista Lucio Amelio, il quale si propose per una presentazione alla personale che in quell’anno avrei tenuto alla Modern Art Agency con nel catalogo le presentazioni di Lea Vergine e Filiberto Menna sotto la regia dell’Amelio. La presentazione di Lea Vergine recita così:
“La prima personale finisce con l'essere innanzi tutto traumatica e difficile: traumatica perchè per la prima volta si scoprono le batterie di fronte al nemico, e ad esso volontariamente ci si dà in pasto, accettandone e inghiottendone le reazioni; difficile di conseguenza.. In questo caso la difficoltà aumenta perché il debuttante non è il diciottenne di belle speranze che ha davanti a sè tutta la vita per rifarsi la bocca degli esiti dell’esperienza ma un accanito e paziente ricercatore ormai oltre i trent'anni . Condizioni, date le quali, giocarsi una carta sbagliata non si risolve con un: "Scusate. Ho sbagliato . La prossima volta farò meglio". Questo premesso, a solo titolo di buon augurio e di franca solidarietà, esaminiamo le cartucce della trincea di Luigi Pezzato, individuo antipartenopeo per eccellenza, solitario , schivo , isolato , noto fino a pochi mesi fa solo come insegnante all'Istituto d'Arte di Napoli.
È da parecchio, comunque, che Pezzato costruisce, disfa e riprova nel suo laboratorio al Calascione; ed oggi approda a questa sorta di esercizi che sollecitano e verificano quanto è illusorio e quanto non lo è, a superfici che riflettono deformate le sagome dei visitatori; i n breve ad un proposta nell'ambito dei rapporti tra percezione e illusione. Anche Pezzato si propone di comunicare visivamente a livello estetico facendo uso di ambiguità d'immagine e praticando un rapporto tra cultura e società; la poetica diciamo che è, per sommi capi, quella gestaltica. I suoi oggetti sono la registrazione delle strutture evidenti e affatto palesi nelle quali si situa la nostra condizione. Pezzato tende darci una realtà di ordine semantico, tende a tramutare in entità culturali le entità naturali che manipola – a volte i materiali di cui si serve posseggono già di per se un significato: il cubo, il quadrato, la sfera.
Mi pare che, al di là di un’auspicabile precisione di rifinitura, il nostro esordiente riesca a stabilire con le sue costruzioni un rapporto di significato. “
Luigi Pezzato, come artista, si dedicò dunque, inizialmente, in particolare all’attività di ricerca nel campo della comunicazione non verbale, partecipando, fin dal 1951, a mostre d’arte - sia collettive, sia personali – in gallerie pubbliche e private – per complessive 50 presenze. “I materiali da me usati erano”, come egli stesso ha lasciato scritto, “acqua, luce, aria, rumore, silenzio”. (Curriculum vitae con foto dei suoi lavori ed elenco premi e mostre). Negli anni tra il 1964 e il 1972 lo occupò un’altra ricerca, “il cui oggetto era una megastruttura urbanistica, uno spazio a mobilità totale per grandi concentrazioni abitative allo scopo di ridurre la cementificazione selvaggia”, progettando una “una spazio-struttura, che fu realizzata nel 1970 su commissione della società Olivetti a Copenaghen, in acciaio inox speculare con pannelli concavi disposti fra di loro a 60° gradi e sovrapposti l’uno sull’altro”. (FOTO SPAZIO-STRUTTURA). Entrato in contestazione, già dal 1969, con i canali propri del mercato dell’arte e “con il circuito della mercificazione, riacquistando libertà di azione e di riflessione”, trasferì negli anni successivi la sua ricerca ”nell’ambito della scuola con alterna fortuna”. Dal 1973 al 1977, allargando l’incidenza delle sue azioni nell’ambito sociale, fu tra i promotori del Collettivo Presenza e Vigilanza (C. P. V.) – Lavoratori della Scuola – Regione Campania, per il “recupero della realtà come totalità concreta”, allo “scopo principale di moralizzare e respingere l’attacco convergente che la critica “interessata”, con l’appoggio di non pochi faccendieri, promuoveva per “donare alla capitale del mezzogiorno la Galleria Regionale d’Arte Moderna!”. “La lotta di quegli anni condotta a viso aperto”, - scrisse Luigi Pezzato – “mi fruttò l’alienazione definitiva dei critici che si vendicarono ritirando opportunamente (come usano fare i gestori del potere borghese) il loro appoggio e radiandomi nelle successive ristampe di collane d’Arte”.
Il 22 Luglio del 1975, nel frattempo, nell’ospedale di Formia, dove trascorreva le sue vacanze con i figli Antonio ed Elena e i suoi nipoti, moriva sua madre Carmela, a cui egli fu sempre fortemente e profondamente legato.
La sua ricerca lo condusse a soffermarsi e a riconsiderare il ruolo svolto dall’agricoltura nella società odierna. “Le osservazioni e indagini fatte fra amici contadini della frazione di Maranola di Formia” – scrive in una pagina manoscritta – gli rivelarono “una serie di fatti molto interessanti sulla vita condotta da loro e sul tipo di economia che sorregge la comunità”, tra cui il “ruolo e il patrimonio culturale che distingue queste comunità da quelle inurbate. Patrimonio culturale capace di produrre il ciclo completo del necessario alla vita dell’uomo e della comunità e che riesce a conservare come in una sorta di Museo vivente gli usi e i costumi di una civiltà che si vorrebbe estinta dalla società consumistica in quanto appunto sfugge e rimane refrattaria al suo controllo”.
Approdò, infine, nel 1977, dopo una “riflessione attenta su tali fatti”, e nello stesso periodo in cui nasceva, ad opera del giovane sindaco di Isola del Piano, Gino Girolomoni, la Alce Nero Cooperativa, una delle prime esperienze agrobiologiche in Italia, all’Agricolart, poi Agricolarte o Arte del bisogno, che ha per marchio una Falce e Cavolo del 1980. (FOTO DEL MARCHIO + FOTO DI GIULIANO TERESI).
Operando all’interno del binomio superfluo/necessario, elesse un campo, acquistato incolto in località Filetto di Maranola sui Monti Aurunci a 850 metri d’altezza, quale luogo in cui condurre “ricerche parallele per il recupero dei gesti primordiali alle necessità dell’uomo, riproponendo spazio/strutture vegetali ed animali nel processo del biologico-naturale (Contesa ecologica)”. “Fu questo un periodo felice nel quale il momento espressivo tornò a fare corpo unico con il concetto da comunicare, ricongiungendo quel cerchio che era rimasto interrotto dal 1966.”
Qui iniziò a mettere in pratica la coltivazione biologica. La filosofia di Agricolarte o Arte del Bisogno “muove dalla dicotomia Arte della vita/Arte della Morte”. Il primo manifesto del 1980 recita: “Agricolarte o Arte del Bisogno è figlia legittima della società odierna, nasce dal vuoto prodotto dall’alienazione dei falsi bisogni indotti dalla logica del superfluo, propria dell’economia consumistica e viaggia verso il recupero del necessario ai bisogni della vita dell’uomo e dell’ambiente” con l’obiettivo della “Ri-conquista del pianeta Terra e della riappropriazione dei modi e dei mezzi di produzione da parte di una nuova classe di operatori culturali coscienti e in lotta per il ripristino nelle campagne del processo biologico-naturale, per la produzione di attività agro-alimentare sana, non inquinante e quindi preventiva di malattie cosiddette da civilizzazione (cancro, tumori, leucemie…) atte a favorire la buona salute dei consumatori e a preservare l’ambiente per le future generazioni.” L’appello è indirizzato a quanti, “dotati di sensibilità ed “antenne”, sono disponibili a restaurare, con comportamenti adeguati, il pianeta Terra. L’imperativo è quello di coniugare storia, tradizioni e progresso scientifico per ripristinare l’equilibrio biologico compromesso”. Dalla morte dell’arte (Hegel) all’affermazione dell’Arte = Vita, l’Agricolarte si propone di restituire alle comunità agricole, ai pastori e contadini, ai loro luoghi la coscienza di essere “autentici produttori di economia privilegiata operanti per vocazione nel rispetto dell’ambiente naturale, autentici artisti della vita operanti in autentiche gallerie di arte concreta, le zone interne ancora intatte e incontaminate”. Nel periodo Luglio-Settembre 1981 presentò strutture audio-spazio-visive-olfattivo-gustative vegetali ed animali.
Allestì nel 1981, con la 17° Comunità Montana dei Monti Aurunci, nel quadro delle promozioni già intraprese nel comprensorio per il recupero di un’economia privilegiata fondata sulla pastorizia, sull’agricoltura biologico-naturale e sull’artigianato derivato da tali attività, la 1° Esposizione di “Energia dal sole – Economia privilegiata” per attirare l’attenzione sulle potenzialità dell’energia solare e dell’agricoltura biologica. (CARTELLETTA DEL CONVEGNO CON CARTINA, FOTO MONTI AURUNCI E FOTO STOMACI DI CAPRETTI LATTANTI DISSECCATI USATI DAI PASTORI DELLE ZONE INTERNE IN PERCENTUALE AL LATTE DA LAVORARE IN “MAZZOLINA”, “JUNCATA” O RICOTTA + CALENDARIO 1982 CON FOTO DEL PASTORE LORENZO TREGLIA, ALESSANDRO FORTE, SINDACO DI VALLEMAIO CAV. CIONE, UNITÀ AGRO-PASTORALE DI TERILLI DOMENICO, ASSESSORE PAOLO FERRARA DELLA COMUNITÀ MONTANA, MARIA CIVITA DI MARANOLA). Esplicito fu l’invito rivolto agli “abitatori delle città e desiderosi di sfuggire all’afa pomeridiana, di godere aria salubre ed apprezzare cibi genuini, a visitare gli insediamenti naturali ed artificiali nel territorio collinare e montuoso delle zone interne, presentandone i paesaggi con rilievi montuosi e valli ricchi di colorata vegetazione, boschi, pinete, pascoli, aria pura ossigenata odorosa di resina ed essenze pregiate, le rocce con sorgenti ed acqua ancora una volta sana, le acque termali, gli impianti di generatori elettrici fotovoltaici ed eolici, climatizzatori di serre presso casolari di pastori-contadini, autentici produttori di economia privilegiata e operanti per vocazione nel rispetto della natura e dell’ambiente”. L’Agricolarte identificò l’opera d’arte quale prodotto autentico dei pastori-contadini operanti in autentiche gallerie d’arte concreta, “in stretta osservanza delle regole della natura, energia solare (sole, acqua, terra), autogratificati con quello che sono in grado di strappare dal processo della pastorizia (mediante una tecnologia essenziale), restituendo all’ambiente concime organico anello insostituibile alla catena biologica capace di rigenerare il suolo restituendogli quegli elementi necessari al suo rinnovamento strutturale per la vita delle piante, per la salute dell’uomo e dell’ambiente (escrementi, lombrichi, humus). I pastori sono essi stessi, nel proprio ambiente di lavoro abituale (i monti, le foreste, i pascoli, le mandre, le greggi, le sorgenti, la pioggia, la neve, la terra, il sole, le rocce, le ginestre, le eriche) che si restituiscono alla lettura come valore estetico e ci inducono a riflettere sul ruolo che essi vanno svolgendo nell’edificazione della società post-consumistica”. Scopo dell’Esposizione-Intervento, “oltre che mirare all’individuazione e al riconoscimento dell’opera condotta da questi operatori oggi spinti al limite della scala sociale, è anche il recupero di quei valori di genuinità e di tradizione che ci sono pervenuti attraverso costoro. È di questo recupero che devono farsi carico gli amministratori, mediante una politica di interventi nei comprensori tesa a fornire ai pastori-contadini quelle infrastrutture necessarie (depositi di acqua, di fieno, strade praticabili, funivie per raggiungere luoghi impervi, pascoli, strutture sanitarie adeguate, campi di sperimentazione per la promozione di agricoltura naturista, installazione di impianti di energia pulita ecc.) ad incentivo e sviluppo e ad una conduzione meno faticosa di tale lavoro, restituendo loro dignità ed efficienza e costituendo un richiamo per i giovani. Sorgono ormai a centinaia, se non a migliaia, associazioni naturistiche o sedicenti tali, sull’onda crescente della domanda da parte di consumatori inurbati che cercano scampo pagando fior di quattrini per prodotti che poi di naturale hanno ben poco o paradossalmente si pubblicizzano prodotti dietetici venduti esclusivamente in farmacia! Basterà promuovere e stimolare la gente di questi luoghi ad una maggiore produzione di cibi genuini e naturali, pubblicizzando tale produzione e mettendoli in contatto con i consumatori, in modo da assicurare agli uni e agli altri la garanzia di uno scambio senza intermediari…favorendo una nuova forma di turismo…incoraggiando una politica culturale fondata sulla incentivazione della produzione e consumo in loco di prodotti naturistici, opportunamente protetti con disposizioni e sensibilizzando gli operatori al rispetto del consumatore…Presso i pastori e contadini delle zone interne sarà possibile gustare con modica spesa e fare incetta di cibi genuini come la famosa “mazzolina”, formaggio di capra tipico della zona, polli ruspanti, capretti, pane di grano casereccio, vino genuino, verdure (tutto con procedimenti naturali) e poi castagne, noci, olive e olio di cui è rinomata la produzione di Itri e dintorni per qualità e quantità di prodotto. Producono, inoltre, con rara abilità e perizia attrezzi ed utensili nonché stoviglie e ciotole e quant’altro è a loro necessario alla pratica della pastorizia e agricoltura, come campanacci di metallo, stuoie di fibra vegetale, indumenti di lana. Presso alcuni di loro è possibile trovare ospitalità con tenda propria”. (MANIFESTO DELL’AGRICOLARTE CON FOTO DI LUIGI PEZZATO CON FALCE E CAVOLO). Fu l’organizzatore del Convegno sullo stesso tema, il 28-29 Novembre 1981 presso l’Hotel S. Egidio di Castelforte – Suio Terme, cui parteciparono noti esponenti della politica e della cultura ambientalista italiana, tra cui Giannozzo Pucci, Antonino Drago, Nico Valerio. (RECENSIONE GAZZETTA DI GAETA, 25 GENNAIO 1982, di Roberto Mari che auspica la pubblicazione degli Atti del Convegno.)
Nel 1982 fu l’autore del Manifesto dal titolo “Per una nuova dimensione estetica, per un turismo del bisogno o della salute” e fondatore della Cooperativa di produzione Agricolarte a r. l. di Maranola, di cui fu anche Presidente fino alle sue dimissioni nel 1985. Successivamente, con Decreto 30 novembre 2001 fu deliberata la Liquidazione coatta amministrativa della societa' cooperativa "Agricolarte, societa' cooperativa agricola a r.l.", in Formia, e nominato un commissario liquidatore. (Decreto n. 15/2001).
(CALENDARIO AGRICOLARTE DEL 1985 CON INTRODUZIONE, IMMAGINI E CITAZIONE DI TESTI di Robert Frederick, Nico Valerio, Andrè Passebeq, Luigi Costacurta, Jean Valnet, Francesco Garofalo).
Nel Maggio del 1986 promuove, a nome della Società Cooperativa Agricolarte A.R.L. con sede a Maranola (LT). il 1° Corso di Formazione all’Agricoltura Biologica Naturale e alla Pastorizia nel Sud Pontino per un turismo della salute nei Monti Aurunci e il Convegno “Alimentazione biologica naturale per un turismo della salute nei Monti Aurunci,” con relatori quali Nico Valerio, Fernando Di Jeso, Gino Girolomoni di Alce Nero, Giannozzo Pucci e Luciano Picchiai, organizzando altresì a Maranola la 1° Sagra paesana di cocuzza e fasugli, con manifestazioni di musica popolare, una mostra documentario sulle tecniche agricole e artigianali con proiezione di diapositive, anche allo scopo di costituire un “Centro di testimonianza degli usi e dei costumi locali”.
Il 28 Novembre 1990, all’ospedale Cardarelli di Napoli, si spegneva anche suo fratello maggiore Antonio.
Purtroppo gli ultimi anni della sua vita, già compromessi da problemi di salute (un diabete insulino-dipendente dal 1970 al 1985, una fibrillazione atriale) furono consumati inesorabilmente dalla dialisi - dal 1991 al 1993 - ponendo fine ai suoi progetti e ai suoi sogni.
In una lettera del 14 Novembre 1991, indirizzata a Marina……, ricoverato nell’ospedale di Formia in preparazione della dialisi, egli descrisse le sue tribolazioni e la sua malattia come “una prigione, che se da una parte, attraverso la dialisi, mi permette la sopravvivenza, nello stesso tempo mi rinchiude in uno spazio a metà fra la vita e la morte, un’attesa che è commiato, una sospensione indicibile”. In questa stessa lettera pregò la sua interlocutrice di “portare a conoscenza di chi può essere interessato” della sua decisione sofferta di vendere “una casa da me costruita nell’82 a ridosso dei Monti Aurunci, in un posto incantevole, a 8 km dal mare, 850 metri s. l . m.. Il luogo è indicato per gli amanti della natura, delle passeggiate in montagna, aria pura, pulita, terreno ottimo per un’agricoltura familiare in zona parco”. A quella casa egli aveva messo nome “Tre tetti” e le aveva dedicato tanta parte delle sue migliori energie negli ultimi anni della sua vita. In zona montana, località Filetto di Maranola a 13 km da Formia, 100 m² e 2400 m² di terreno agricolo e alberato a frutteto, con un impianto a energia solare fotovoltaico, una cisterna di acqua piovana di 48 m³ dotata di autoclave, acqua calda, la casa fu venduta…Ma zio Gigi vive ancora là, insieme ai suoi pastori artisti della vita Peppe Accetta, Domenico Terilli, Antonio detto Gesù Cristo, ai suoi cavolfiori e alle sue galline. Morì il 21 Agosto 1993, a soli 62 anni, nell’ospedale di Formia, in un caldo pomeriggio d’estate. I suoi resti riposano nel piccolo cimitero di Maranola, ai piedi della Cima del Redentore e dei Monti Aurunci, tra il suo mare, lungo il litorale da Minturno, Scauri, Gianola, Santo Janni, Formia, Gaeta fino a Sperlonga e le sue montagne. Nella casa medioevale di Maranola, da lui acquistata e con amore e passione ristrutturata, c’è ancora sua moglie, Emilia Teresi in Pezzato, a custodire opere, documenti e ricordi. Tra le sue ultime iniziative figura la proposta di realizzazione di una Stele Celebrativa, una sorta di Monumento promosso dal Movimento Agricolarte o Arte del Bisogno = Arte della Vita, costituito da “una moltitudine di stele celebrative attestanti la nuova coscienza dei “VIVI ATTENTI” per celebrare la nuova categoria dei “MORTI DISTRATTI DALLE SEDUZIONI PUBBLICITARIE”, vittime innocenti della più grande guerra di tutti i tempi. La Stele Celebrativa, costituita da 12 pannelli concavi in acciaio inox speculare, dalle dimensioni di cm. 0.90x30x0.60 sono disposti l’uno sull’altro in modo che ognuno di essi formi un angolo di 60° gradi sia con quello che lo precede, sia con quello che lo segue. Tali pannelli sono per superficie e forma atti a portare incisi i nominativi di quanti avranno aderito all’iniziativa. La Stele Celebrativa è eretta dai VIVI ATTENTI e dedicata ai MORTI DISTRATTI che, con il loro sacrificio innocente ma colpevole, hanno creato coscienza nei VIVI ATTENTI, premiandoli e additandoli alle future generazioni come autentici salvatori del pianeta Terra e permettendo ai VIVI DISTRATTI di ravvedersi, rientrando nel circuito del Biologico-Naturale”. La proposta è preceduta da una breve introduzione, in cui egli scrisse:
“I grandi capovolgimenti sociali ed economici che si vanno producendo in questo scorcio di secolo sono la conseguenza delle profonde trasformazioni della società post-industriale. I mass-media, la tv, gli spot pubblicitari, i modelli consumistici di produzione e di comportamento sono diventati un potente strumento di seduzione per piegare in modo subdolo e accattivante le masse, orientandole verso mercati e stili di vita sempre più standardizzati ed omologhi.
Dalla società riformata divisa in classi socio-economiche si è passati oggi a quella dei “presenti” e degli “assenti”, degli “attenti” e dei “distratti”, categorie che da un lato identificano chi in modo critico e consapevole cerca di difendersi dal consumismo industriale, dall’inquinamento e dall’alimentazione sempre più sofisticata; dall’altro chi si lascia distrarre dai bisogni primari seguendo le seduzioni pubblicitarie e i modelli tecnologici di consumo e di vita…L’attività pratica della Cooperativa AGRICOLARTE coltiva i campi della conoscenza, fra tradizione e progresso scientifico, per una migliore qualità di vita dell’uomo e dell’ambiente (Arte della Vita), capace di esprimere al meglio lo spirito divino, il soffio vitale che anima e rinnova attimo per attimo la faccia della Terra, preservandola dalle catastrofi e dalle forze del male (Arte della Morte)…Nel flusso di vita e di morte, l’umanità viaggia inseguita da bisogni reali e fittizi. Il potere economico gestisce il nostro modo di vivere sconvolgendo culture e tradizioni, programmando vita e morte e coinvolgendoci in atrocità e mostruosità di cui siamo inconsapevolmente attori e vittime innocenti…Le catastrofi, da quelle nucleari a quelle geofisiche a quelle alimentari, ci coinvolgono tutti, unificando regioni e continenti e rendendoci uguali nella morte chimica. ..Fino agli anni ’50 l’uomo si è nutrito, senza averne coscienza, con alimenti naturali…L’avvento della chimica lo sottrae agli stenti, alla fame di un’agricoltura pulita ma povera e lo avvia verso il consumismo industriale, verso l’opulenza…Ha avuto così inizio, dopo il triste genocidio delle razze negli anni ’40, la più grande guerra di tutti i tempi ma anche la più subdola, perché – passando per i piaceri del palato, delle tavole imbandite delle grandi abbuffate – in modo apparentemente pacifico ha mietuto vittime a milioni, ne miete e ne mieterà… È da questi morti, distratti da vivi dai bisogni primari e imbrigliati in quelli superflui e sovrastrutturali, dal loro sacrificio innocente ma colpevole, dalle catastrofi ambientali che, tuttavia, nasce e si rafforza la coscienza ecologista dei singoli, delle aziende, delle cooperative e dei movimenti che sono oggi la punta di diamante di tutta l’agricoltura biologico-naturale…Sono, dunque, tutti questi morti, distratti da vivi dalle seduzioni pubblicitarie e la coscienza ecologista generata da questi nei vivi “attenti” il presupposto del movimento Agricolarte o Arte del Bisogno, che si colloca per questo riconoscimento dicotomico in modo originale nel più vasto contesto dei movimenti ecologisti”.
Luigi Pezzato fu, a modo suo, tra contraddizioni e ingenuità, un precursore. Nato e vissuto nell’era pre-computer ed Internet, animò negli ultimi anni della sua esistenza la vita culturale ed artistica del basso Lazio e di Maranola e, come ha scritto di lui Nico Valerio, fu “uno dei suoi cittadini più creativi, intelligenti, generosi, anticipatori e idealisti”. Ad un movimento come Slow Food, fondato da Carlo Petrini nel 1986 o Terra Madre, meeting mondiale tra le Comunità del Cibo, lui avrebbe sicuramente dato il suo apporto e contributo, in nome di ideali e valori condivisi quali il “dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio, la necessità dell’educazione del gusto come migliore difesa contro la cattiva qualità e le frodi e come strada maestra contro l’omologazione dei nostri pasti; la salvaguardia delle cucine locali, delle produzioni tradizionali, delle specie vegetali e animali a rischio di estinzione; un nuovo modello di agricoltura, meno intensivo e più pulito”.

L'Epoca delle passioni tristi

L’Epoca delle passioni tristi

L’analisi della crisi nella crisi della società contemporanea, delineata da M. Benasayag nel suo “L’Epoca delle passioni tristi”, mi sembra molto chiara, lucida e penetrante. I testi che ho già segnalato, in particolare quelli di Umberto Galimberti e Franco Berardi, ne sintetizzano, a livello teorico, i concetti chiave e i principali nuclei tematici e argomentativi in modo altrettanto chiaro, preciso e brillante.
Li darò, pertanto, per acquisiti. Io vorrei esporre solo qualche iniziale e più personale considerazione e riflessione sul libro e sulle impressioni che mi ha suscitato. È uno dei libri che, ultimamente, mi hanno più coinvolto. Me ne sono chiesto il perché.

Molto schematicamente riassumo le tre risposte che sono riuscito a darmi, rispettivamente a livello emotivo e personale, di partecipante al gruppo di lettura e professionale:

1. Mi ha sicuramente molto coinvolto il “dramma nel dramma” vissuto dall’autore. La sua prima moglie, com’è noto, era scomparsa nel buco nero dei desaparecidos, sotto la dittatura argentina. Recentissima, invece, la vicenda (davvero, per molti versi, una tragica fatalità) della sua attuale compagna, la giornalista di Liberation” Florence Aubenas, scomparsa anche lei nel nulla, col suo autista iracheno, la mattina del 5 febbraio scorso nel nuovo buco nero dell’inferno della guerra in Iraq. Insieme alla sorte drammatica della nostra Giuliana Sgrena (c’ero anch’io a Roma il 19 febbraio scorso, con decine e decine di migliaia di persone mobilitatesi per la liberazione di Giuliana, della pace sequestrata e, forse, proprio per reagire alle passioni tristi dell’impotenza e della rassegnazione), questi eventi hanno sicuramente contribuito a drammatizzare la lettura del testo e a farmela vivere non come un’esperienza meramente astratta, sul piano intellettivo e cognitivo, ma come un’esperienza emotiva molto intensa e coinvolgente.

2. Ho partecipato all’incontro del Gruppo di Lettura di Cologno su “Il tempo di cambiare” di Paul Ginsborg, un altro bel libro di cui mi sento di raccomandare vivamente la lettura. Avevo, in quell’occasione, segnalato come il libro di Ginsborg fosse nato da “un’esperienza di impegno civile vissuta a livello locale”, quella del “Laboratorio per la democrazia” di Firenze, in stretta connessione con “la grande paura” globale determinatasi nel mondo dopo l’11 settembre 2001 e le guerre che ne sono seguite. E sottolineato che, come scrive Ginsborg, “le minacce cumulative all’esistenza umana (terrorismo, distruzione nucleare, abusi ecologici) hanno introdotto una nuova relazione tra paura e tempo. Assai più di quarant’anni fa si ha la sensazione che il tempo si stia esaurendo…Come risultato di questo assommarsi di angosce, in moltissime persone si rafforza l’inquietante combinazione di due sensazioni: urgenza e impotenza”. Ebbene, l’impotenza, la rassegnazione, la disgregazione e la mancanza di senso sono proprio quelle passioni tristi, di spinoziana memoria, di cui discorre Benasayag nel suo libro! Le risposte di Ginsborg alla domanda “Come possiamo arginare la marea” e di Benasayag a quella da egli stesso posta, nel capitolo conclusivo, “Come resistere a questo mondo di bruti”, pur nella diversità degli approcci, degli stili e della personalità dei due autori, corrono parallele. “Procedere a una riappropriazione”, “riprendere cioè il controllo della qualità delle nostre vite e del contesto in cui le viviamo” “in posizione fortemente critica rispetto al modello di modernità prevalente nei paesi sviluppati” ed “esportato ed imposto al resto del mondo. Dobbiamo partire da noi stessi, non in modo puritano o fanatico o provvisti dai sensi di colpa, ma realisticamente…ripensare le scelte che attuiamo su base quotidiana, la vita familiare che conduciamo, il genere di beni che consumiamo, la qualità della democrazia che possiamo esercitare”. La passività e l’indifferenza (a livello individuale e locale) contribuiscono sommamente allo sgomento collettivo (a livello globale).

Ginsborg propone tutta una serie di prassi alternative a livello individuale,familiare e civico come possibili vie d’uscita da quella crisi nella crisi di cui parla anche Benasayag, il quale su un altro piano, psicologico o psicoanalitico, suggerisce la creazione di una serie di pratiche cliniche e di reti di relazioni personali, fondate sui legami emotivi ed affettivi, sui principi di solidarietà, di responsabilità e libertà, intesi come condivisione di passioni gioiose, le uniche capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società neoliberista dell’individualismo tende a rinchiuderle.

3. Il libro di Benasayag parla ai giovani e a “tutti quelli che ne hanno cura”. Ed effettivamente si tratta di un saggio fondamentale per gli insegnanti e gli educatori in generale. In particolare, per quelli di scienze sociali. “C’è lucidità nella descrizione della crisi, come passione sui percorsi possibili di uscita dal patchwork dei valori. È un saggio che potrebbe fare da sfondo per il triennio: dagli elementi forti della modernità/modernizzazione alla sua crisi, alla consapevolezza di vivere, oggi, in un altro mondo che va indagato (mondo che possiamo chiamare post-moderno o come altro ci pare ma che è altro rispetto alla modernità e che è soprattutto vissuto/subito dai giovani, i nostri interlocutori)”. Mi si perdoni la citazione di Lionello Bettin, con cui concordo pienamente, ma anch’io, del resto, insegno filosofia e scienze dell’educazione, come si diceva una volta, o scienze sociali e/o umane, come si preferisce dire oggi, in un istituto di istruzione superiore. Ed è proprio questo il terzo motivo per cui il libro mi ha così appassionatamente coinvolto, sfondando una porta in un certo senso già spalancata nel mio lavoro quotidiano. Non a caso ho già consigliato la lettura del libro di Benasayag in un paio di classi del triennio, presentandone brevemente i contenuti e i nuclei tematici e concettuali e, non a caso, in una classe quinta ho avviato, fin dall’inizio del corrente anno scolastico, un laboratorio di lettura su due testi di Edgar Morin, per molti versi elettivamente affini, come “La testa ben fatta” e I sette saperi necessari per l’educazione del futuro” , nella consapevolezza delle nuove sfide della complessità e della caduta delle precedenti certezze, cui siamo chiamati a rispondere nel passaggio epocale dalla modernità del futuro-promessa alla post-modernità del futuro-minaccia.

Tuttavia, la pedagogia non è solo filosofia o scienza dell’educazione ma anche e, forse, soprattutto, arte, relazione, clinica del legame, capacità di risvegliare – al di là di ogni malinteso atteggiamento autoritario o permissivo o seduttivo e utilitaristico/contrattuale – motivazioni ed interessi profondi, il desiderio e la curiosità di conoscere se stessi e il mondo, produttori di vero ed autentico apprendimento, in un clima di solidarietà e di responsabilità/libertà. Come scrive anche Edgar Morin, educare è più di una funzione o professione. “Il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a un semplice impiegato. Il carattere professionale dell’insegnamento porta a ridurre l’insegnante all’esperto. L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione.

Una missione di trasmissione.

La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un’arte.

Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento:l’eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L’eros permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. È ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente.

Là dove non c’è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l’insegnamento.

La missione suppone evidentemente la fede, in questo caso la fede nella cultura e nelle possibilità della mente umana.

La missione è dunque molto elevata e difficile, poiché suppone, nello stesso tempo, arte, fiducia e amore. Eros, missione e fede costituiscono il circuito ricorsivo della trinità laica, in cui ciascun termine alimenta l’altro”.

Come ricorda Morin, Kleist scriveva in una lettera a un’amica “Il sapere non ci rende migliori né più felici”; ed Eliot si chiedeva “Dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione? Dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?”. Morin propone un insegnamento educativo, capace di andare oltre le connotazioni di lavorazione e conformazione strettamente cognitive (connaturate al concetto di formazione/insegnamento), incoraggiando l’autodidattica, destando, favorendo l’autonomia dello spirito, la trasmissione non di puro sapere ma di una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione fragile e di aiutarci a vivere, pensando in modo aperto e libero; pur nella consapevolezza che nella parola educazione c’è al tempo stesso un troppo e una mancanza”. E conclude: “Ma l’educazione può aiutare a diventare migliori e, se non più felici, ci insegna ad accettare la parte prosaica e a vivere la parte poetica delle nostre vite”.

Concludo anch’io, ma non prima di rinviare alla lettura di un piccolo ma prezioso libro, “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupery, che rappresenta per me una sorta di metafora laica dei principi a cui dovrebbe ispirarsi la relazione educativa. Per resistere a questo di mondo di bruti, ci vuole un po’ di coraggio, pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, ma innanzitutto la capacità di riscoprire, senza confusioni né malintesi cedimenti di tipo amicale e/o seduttivo al proprio ruolo di adulti e di educatori, la profonda necessità di creare dei legami ” e delle relazioni fondate sul tempo condiviso e sulla cura.

Senza, tuttavia, mai dimenticarsi che, come ha scritto Paolo Crepet, di cui consiglierei la lettura di “Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e sull’adolescenza”, Einaudi, c’è anche un uso malinteso e paradossale del prendersi cura, “quale esercizio non di amore ma di smisurato egoismo, perché se certe persone non avessero delle vittime di cui prendersi cura, non esisterebbero.”

Aldo M.

da Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupery

In quel momento apparve la volpe.

“Buon giorno”, disse la volpe.

“Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

“Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo….”

“Chi sei?” domandò il piccolo principe, ” sei molto carino…”

“Sono la volpe”, disse la volpe.

” Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.

“Ah! scusa “, fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

” Che cosa vuol dire addomesticare?”

” Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe” che cosa cerchi?”

” Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe.

” Che cosa vuol dire addomesticare?”

” Gli uomini” disse la volpe” hanno dei fucili e cacciano. E’ molto noioso!

Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?”

“No”, disse il piccolo principe. ” Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?”

” E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…”

” Creare dei legami?”

” Certo”, disse la volpe. ” Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma.se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.”

” Comincio a capire”, disse il piccolo principe. ” C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”

“E’ possibile”, disse la volpe “capita di tutto sulla terra…”

“Oh! Non è sulla terra”, disse il piccolo principe.

La volpe sembrò perplessa:

” Su un altro pianeta?”

” Sì”

” Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?”

” No”

” Questo mi interessa! E delle galline?”

” No”

” Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe.

Ma la volpe ritornò alla sua idea:

” La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me .Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita,

sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in

fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color d’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai

addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:

” Per favore …..addomesticami”, disse.

” Volentieri”, rispose il piccolo principe, ” ma non ho molto tempo, però.

Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

” Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe.” gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”

” Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.

” Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe.

” In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino….”

Il piccolo principe ritornò l’indomani.

” Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.

” Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità.

Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”.

” Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.

” Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe.

” E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io

mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”.

Così il piccolo principe addomesticò la volpe.

E quando l’ora della partenza fu vicina:

“Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”.

” La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”

” E’ vero”, disse la volpe.

” Ma piangerai!” disse il piccolo principe.

” E’ certo”, disse la volpe.

” Ma allora che ci guadagni?”

” Ci guadagno”, disse la volpe, ” il colore del grano”.

soggiunse:

” Va a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”.

“Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto”.

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente” , disse.

” Nessuno vi ha addomesticato e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre.

Ma ne ho fatto il mio amico e ne ho fatto per me unica al mondo”.

E le rose erano a disagio.

” Voi siete belle, ma siete vuote”, disse ancora. ” Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei

che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro, Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato

lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa” E ritornò dalla volpe.

” Addio”, disse.

“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

” L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

” E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.

“E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

” Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.

Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”

” Io sono responsabile della mia rosa….” Ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

lunedì 1 febbraio 2010

01022010: notte palindroma. Neve...all'Alberese!