domenica 29 luglio 2012

Bruno Gambacorta, Eat Parade, Milano, RAI Eri - Vallardi, 2011

SINOSSI DEL LIBRO Bruno Gambacorta, Eat Parade, Milano, RAI Eri - Vallardi, 2011 Il libro si compone di 35 storie in tutto, suddivise in tre parti o sezioni: “Saper fare”, “Far sapere” e “Rinascere in cucina”. “SAPER FARE” La prima parte, “Saper fare”, è dedicata a una sorta di viaggio enogastronomico e turistico, in giro per alcune regioni d’Italia, “alla scoperta di personaggi e prodotti fuori dal comune, salvati dall’estinzione o reinventati all’insegna della qualità”. Si tratta delle prime 12 storie di luoghi, associazioni, persone e prodotti tipici, intervallate da schede o box di approfondimento e da 25 ricette d’autore. In rigoroso ordine alfabetico, si parte dalla Basilicata – recentemente riscoperta quale meta turistica grazie al successo di Rocco Papaleo e del suo divertente film “Basilicata coast to coast” - e, in particolare, dall’Alta Val d’Agri, ora sede di un nuovo Parco Nazionale. Si racconta la storia dei fagioli IGP del piccolo comune di Sarconi, del suo Consorzio e di Terenzio Bove, strenuo propugnatore dell’agricoltura biologica in Lucania. La seconda e terza tappa del viaggio sono dedicate alla Campania. Con i suggestivi titoli di “L’oro giallo di Sorrento” e “La mozzarella perfetta”, due capitoli del libro raccontano le storie di altrettanti prodotti tipici e rappresentativi di quella terra una volta conosciuta come “felix”: i gialli limoni ovali di Sorrento e la mozzarella di bufala di Paestum. Ai limoni e al limoncello di Sorrento è intrecciata la storia di Mariano Vinaccia e della Cooperativa Solagri (acronimo di SOrrento Limone AGRIcoltura), e della loro opera di tutela, insieme agli agrumeti della penisola sorrentina, del paesaggio, della vivibilità del territorio e della sua enogastronomia. Alle mozzarelle di Vannulo, invece, è associata la storia imprenditoriale di Antonio Palmieri e famiglia e della loro esemplare e moderna azienda di 500 bufale, una specie di piccola Svizzera a due passi dai meravigliosi templi di Paestum. Alla conviviale Emilia-Romagna, ai salumi della Bassa parmense e, in particolare, al Culatello di Zibello è dedicato il quarto capitolo del libro che rievoca l’antica storia di famiglia di Massimo Spigaroli e della sua premiata norcineria, apprezzata e ammirata dal principe Carlo d’Inghilterra, che si era anche offerto di assumerlo come “norcino di corte” in Galles. Il quinto capitolo è, invece, dedicato a quell’autentico angolo di Paradiso, a poco più di una ventina di chilometri a est di Genova, dominato dal Parco Naturale del Monte di Portofino, con la sua celebre Abbazia di San Fruttuoso. Si racconta delle acciughe sotto sale del Mar Ligure - “u pan du ma”, vero e proprio pane del mare - della Cooperativa Pescatori di Camogli, nonché dei famosi gamberi rossi della vicina Santa Margherita Ligure. Acciughe e gamberi sono entrambi prodotti tipici e tradizionale vanto dei ristoratori della Riviera Ligure. Nel sesto capitolo si parla di tartufo, tartufi bianchi d’autunno e neri d’estate, prodotti quasi esclusivi del nostro paese e di fondamentale importanza turistica, economica, culturale e gastronomica, ma non siamo né ad Alba, in Piemonte, sede di una grande Fiera del tartufo da oltre 80 anni e di un Centro nazionale di studi, né ad Acqualagna, nelle Marche, né a San Giovanni d’Asso, nelle Crete senesi, nel suo curioso Museo del Tartufo. Lontano dalle capitali italiane del tartufo, siamo accompagnati fino in Molise, in un piccolo comune di meno di settecento anime nella provincia d’Isernia: San Pietro Avellana. In una zona montuosa a mille metri d’altitudine, ai margini dell’antico tratturo tra Celano e Foggia, distante da grandi centri abitati e dai principali flussi turistici, il tartufo ha fatto un piccolo miracolo diventando il “vero collante economico” della zona. Agli oltre 5 milioni di ulivi centenari e perfino millenari della Puglia, “paesaggio unico al mondo”, è dedicato il settimo capitolo, che racconta la storia della Comunità degli oliveti monumentali e del progetto “Oro dei Giganti”. In una regione da cui deriva circa un terzo della produzione nazionale di olio d’oliva, ma in cui “non sempre gli agricoltori hanno scelto la qualità, per cui l’immagine complessiva del prodotto non è assolutamente in grado di competere con quella dell’olio toscano, abruzzese, ligure o del Garda”, il cosiddetto Oro dei Giganti è, per ora, solo un’esperienza pilota ma dall’alto valore simbolico. A presidio delle antiche masserie, dell’ambiente e della biodiversità di queste terre e dell’impegno contro la criminalità organizzata, il progetto, sostenuto dal gruppo Alce Nero & Mielizia e dal suo presidente Lucio Cavazzoni, ha vinto nel 2010 anche il Panda d’Oro, una specie di Oscar dell’ambiente, assegnato dal WWF. Ad Antonello Salis e al salumificio di famiglia “La Genuina” di Ploaghe, un paesino in provincia di Sassari, è dedicata l’ottava storia di “Saper fare”. Si tratta dell’invenzione di un prodotto nuovo ma profondamente connaturato al paesaggio sardo, in cui vive la metà delle pecore presenti sul suolo italiano: il prosciutto di pecora della Sardegna. Oltre a ricevere l’Oscar green della Coldiretti per “l’innovazione in agricoltura”, il prodotto ha ottenuto la certificazione kosher dal rabbino di Trieste e halal dall’imam di Sassari, aprendo interessanti prospettive culturali ed economiche di mercato presso le comunità ebraiche e islamiche non solo in Italia e in Europa. La dinastia degli Alois e Alois Lageder, con la sua azienda e cantina di Magrè in Alto-Adige, sono i protagonisti della nona storia, culminata nella conversione di oltre cinquanta ettari di vigneto al metodo biodinamico, sulla base dei principi della scuola antroposofica fondata da Rudolf Steiner, e dei criteri di coltivazione della vite, più equilibrati e naturali, dell’Associazione internazionale biodinamica Demeter. La decima storia racconta di due umbri “legumi d’autore”: le lenticchie di Castelluccio, una frazione di Norcia, all’interno del Parco dei Monti Sibillini, con marchio europeo Igp, e la roveja di Civita di Cascia, coltivata già in epoca preistorica e che “pare sia stata, insieme a lenticchie, orzo e farro, la base dell’alimentazione umana nel Neolitico”. Scomparsa prima come foraggio, poi come alimento per l’uomo, è stata riscoperta alla fine degli anni Novanta, diventando nel 2006 oggetto di un Presidio Slowfood. Civita di Cascia, con i suoi sessanta abitanti e nonostante il suo isolamento, è diventata ormai nota ai buongustai grazie a questo legume unico dalle antichissime origini. Protagonista dell’undicesima storia di “Saper fare” è Gerardo Beneyton, fondatore del Consorzio cooperative agricole della Val d’Aosta e di Caseus Montanus, Centro internazionale per l’agricoltura di montagna, e ideatore delle Olimpiadi biennali del formaggio. Al centro del racconto la sua battaglia per far conoscere e salvare dall’estinzione i formaggi di montagna, con i loro sapori unici e inconfondibili, conferiti dai “pascoli in alpeggio e dalla lavorazione in malga”. Una scheda di approfondimento illustra le attività dell’ONAF, Organizzazione nazionale assaggiatori di formaggi, e di uno dei suoi fondatori e storico presidente, Pietro Carlo Adami. Chiudono la prima sezione di “Saper fare” la storia della famiglia Melotti e di “uno dei risi più amati dagli chef di tutto il mondo: il Vialone Nano Veronese Igp”, prodotto a Isola della Scala e in altri 23 comuni a sud di Verona, “in un bel contesto ambientale punteggiato dai castelli scaligeri”. Un’allegata scheda di approfondimento ci conduce, tuttavia, nella capitale del riso italiano, a cavallo tra Piemonte e Lombardia, nel vercellese, per raccontarci la storia dell’architetto-agricoltore Piero Rondolino. FAR SAPERE La seconda parte o sezione del libro è dedicata alle storie di alcuni “divulgatori appassionati e colti, capaci di scegliere e proporre il meglio dell’enogastronomia di qualità”. Si tratta di altre 11 avvincenti storie, la prima delle quali si svolge in Abruzzo, nel piccolo ma graziosissimo paese di Anversa degli Abruzzi, dove il pastore Nunzio Marcelli, laureatosi poi in economia con una tesi sul recupero delle aree interne mediante la pastorizia, prima fonda una cooperativa con altri allevatori e, dopo, s’inventa un progetto di successo, largamente imitato, dal titolo “Adotta una pecora...Difendi la natura”. Alla regione e all’uomo più piccanti d’Italia, la Calabria ed Enzo Monaco, fondatore e presidente del Peperoncino festival di Diamante (che nel 2012 festeggerà la sua XX edizione) e dell’Accademia italiana del peperoncino, è dedicata – invece - la seconda storia di Far Sapere. Il peperoncino, ormai onnipresente “in quasi tutti i piatti della cucina calabrese”, cosiddetta “spezia dei poveri”, diventa, grazie ad Enzo Monaco, il “simbolo d’identità culturale e gastronomica” di un’intera regione pur “divisa da mille campanilismi” e un fenomeno turistico ed enogastronomico di successo. Nel terzo capitolo di Far sapere Bruno Gambacorta racconta delle antiche razze rustiche di maiali nostrani, fuori moda solo fino a qualche tempo fa: dalla mora romagnola, alla cinta senese al suino nero di Calabria, dei Nebrodi o della Sardegna. I protagonisti veri della storia sono, però, in realtà i suini neri casertani, “i pelatielli con le sciucquaglie”, quasi privi di setole ma con due escrescenze “che pendono a mo’ di orecchini ai lati del collo”. Grazie all’opera combinata di Luciano Di Meo, e della sua masseria di famiglia nella piana del Volturno, e di Bernardino Lombardo, prima col suo ristorante di Pietravaraino, poi con il suo agriturismo di Conca della Campania, si può cominciare a parlare di una vera e propria ”rinascita del maiale nero casertano”. A quattro singolari ma fondamentali musei del cibo, oltre 100.000 visitatori e un portale ancor più visitato, è dedicato il quarto capitolo della sezione Far Sapere. Si tratta dei Musei del Parmigiano Reggiano di Soragna, del Museo del prosciutto di Langhirano, del Museo del Salame di Felino e del Museo del Pomodoro di Giarola, tutti nati nella provincia di Parma – una delle capitali italiane del settore agroindustriale – per impulso di Albino Ivardi Ganapini, prima “braccio destro di Pietro Barilla”, poi assessore all’agricoltura nella giunta provinciale dal 1999 al 2004. Scrive, a tal proposito, Bruno Gambacorta: “Trovo questi musei una delle cose fondamentali per un paese come il nostro che si vanta, giustamente, della quantità, qualità e varietà dei propri prodotti enogastronomici. Dare profondità e spessore culturale a queste affermazioni è indispensabile”. A Ganapini si deve riconoscere, inoltre, il merito di aver realizzato – nella Reggia di Colorno – anche la Scuola Internazionale di Cucina Italiana Alma, nata allo scopo di diffondere la cultura della cucina e dei prodotti italiani e di formarne gli operatori e a dirigere la quale, come rettore, è stato chiamato Gualtiero Marchesi, “riconosciuto da tutti come il padre della cucina italiana moderna”. Giovanni Ballarini, veterinario, antropologo alimentare, professore emerito dell’Università di Parma ma anche grande divulgatore televisivo, è il protagonista della quinta storia, insieme all’Accademia Italiana della Cucina (AIC), di cui è diventato Presidente nel 2008. Fondata nel 1953 a Milano, per iniziativa del giornalista e scrittore Orio Vergani e di altri personaggi come Dino Buzzati, Giò Ponti e Arnoldo Mondadori, scopo dell’Accademia è “tutelare le tradizioni della cucina italiana, di cui promuove e favorisce il miglioramento in Italia e all’estero”, attraverso le sue delegazioni, il Centro Studi “Franco Marenghi”, la Biblioteca “Giuseppe Dell'Osso”, il suo sito web e le sue numerose pubblicazioni e guide di ristoranti di cucina italiana e ricettari. L’Emilia-Romagna, per la terza volta consecutiva, è ancora la protagonista della sesta storia di Far Sapere, attraverso tre suoi prodotti tipici (lo scalogno, il formaggio di fossa e la piadina romagnola tradizionale), ma – soprattutto – attraverso l’incontro con Graziano Pozzetto, “una sorta di moderno Artusi, che raccoglie e tramanda le ricette fondanti della tradizione romagnola”. “Straordinario personaggio della Romagna di Fellini e di Tonino Guerra” Bruno Gambacorta lo presenta come “un personaggio chiave nella salvaguardia e divulgazione dei piccoli capolavori che il sapere contadino ha creato nel corso di secoli e noi stiamo disperdendo in pochi decenni”. Pozzetto ha raccolto nella sua casa di campagna un enorme archivio-biblioteca di narrazioni di cibo, vera e propria “enciclopedia dei sapori romagnoli”, diffusa in “duemila incontri pubblici con decine migliaia di persone, ottomila pagine laboriosamente scritte a mano e una ventina di volumi”. La settima storia, dal suggestivo titolo “L’igienista gourmet”, ha per protagonista Gaetano Maria Fara, professore di Igiene e direttore prima degli Istituti di Igiene dell’Università di Milano, poi della Sapienza di Roma, nonché autore di numerosi lavori scientifici dedicati all’alimentazione e, insieme al figlio Tommaso, appassionato di cucina. “Accanto all’igiene degli alimenti, volta a garantire la sicurezza, Fara sollecita soprattutto i giovani ad approfondire l’igiene della nutrizione”, un’educazione nutrizionale fondata sul “mangiare meno” ma “mangiare meglio”, prestando “attenzione alla qualità, alla varietà e alla stagionalità, nel rispetto delle tradizioni, ma senza dimenticare la ricchezza” del “mangiare degli altri”. “E da gastronomo” egli è perfettamente d’accordo “con Carlin Petrini, quando raccomanda di andare oltre l’approccio accademico del nutrizionismo e delle tecnologie alimentari, per arrivare alle scienze gastronomiche”, conciliando “saperi scientifici e saperi umanistici connessi alla cultura del cibo, come la storia e l’antropologia”. L’ottava storia di Far Sapere è dedicata “all’avventura umana e gastronomica di Emilio Bei” e al loro “cenacolo artistico di famiglia”. Il ristorante “Da Emilio”, “a due passi dalla spiaggia di Casabianca di Fermo” nelle Marche è diventato un luogo unico, felice connubio tra ristorazione e arte, con i quadri, le sculture, le bottiglie dipinte, le ceramiche e i paralumi “firmati da grandi artisti amici di famiglia” (Vedova, Burri, Cascella tra gli altri), raccolti “ in quasi cinquant’anni, all’interno del loro ristorante stellato, un vero museo di arte moderna e contemporanea”. La nona storia di Far Sapere ci conduce in Piemonte, a Torino, laboratorio di alcune delle cucine etniche presenti in Italia e patria del “gastronomade” ed esperto di cucina etnica e del mondo Vittorio Castellani, alias Chef Kumalè, con allegata una scheda sull’interessante manifesto-decalogo del Couscous Clan contro la xenofobia gastronomica. La Sicilia è la protagonista della decima storia con i suoi formaggi tipici (Ragusano, Pecorino Siciliano, Vastedda, Piacentino, Provola dei Nebrodi, Caciobufalo e Maiorchino), salvati dall’estinzione grazie a Giuseppe Licitra, fondatore e direttore del Consorzio per la ricerca sulla filiera lattiero casearia (CORFILAC), in cui si produce il 70% del latte siciliano, un latte intero fresco pastorizzato dal sapore ricco e denso. La sezione di Far Sapere si conclude in Toscana, tra le colline di Montalcino e del celebre Brunello e le Crete Senesi, con l’undicesima storia. Ne sono protagonisti Donatella Cinelli Colombini e le sue “creature”: dal Movimento Turismo del Vino, da lei presieduto fino al 2001, a Cantine Aperte e Strade del Vino, ormai una realtà dell’enoturismo italiano. Ben 23 ricette, dalle più semplici alle più complesse, accompagnano la lettura delle 11 storie raccontate in questa seconda parte del libro. RINASCERE IN CUCINA La terza e ultima parte del libro racconta, infine, “le storie” – dodici in tutto – “di chi si è inventato una nuova vita tornando a coltivare la terra, a produrre o raccontare cibo e vino”. La prima storia è dedicata al capoluogo abruzzese L’Aquila, città fantasma dopo il tragico terremoto del 6 aprile 2009, e ad alcuni dei suoi coraggiosi piccoli produttori e ristoratori, tra i quali Marzia Buzzanca, che faticosamente stanno cercando, tra “disperazione e preoccupazione” di ricominciare. La seconda storia ci porta nel cuore di Napoli e ci racconta del “paziente lavoro” di un ex-sindacalista, Antonio Tubelli, e del suo ristorante “Timpàni e Tèmpura”, a due passi da Piazza del Gesù e di Spaccanapoli, nel “recupero delle più genuine tradizioni gastronomiche napoletane”. Alle comunità “salvavita” per tossicodipendenti di San Patrignano, fondata da Vincenzo Muccioli nell’entroterra delle colline riminesi, e di “Mondo X”, fondata da padre Eligio a Cetona, “tra le splendide colline senesi”, è dedicata la terza storia, “un progetto di vita” e “un’opportunità per tanti ragazzi” di riscoprire attraverso la cucina, l’artigianato e l’agricoltura “il piacere della vita”. Al curioso e insolito “Goloso Ordine delle Cesarine”, “emblema di chi prepara il cibo in ambiente domestico”, e a Homefood, Associazione per la tutela e valorizzazione del patrimonio gastronomico cucinario tipico d’Italia, fondata da Egeria Di Nallo, è dedicata la quarta storia. Del Friuli-Venezia Giulia e, in particolare, della Carnia, “la zona più montuosa della provincia di Udine, al confine con la Carinzia” austriaca, e di alcuni dei suoi prodotti più tipici (prosciutti, formaggi, vini e non solo) si narra nella quinta storia, insieme alla vicenda esemplare della famiglia Petris, esempio di come il settore enogastronomico possa costituire un’occasione di rilancio e rinascita dopo i disastri di un tragico evento sismico. Andy Luotto, attore italo-americano, soprannominato “The cook” fin dagli anni del liceo, è - invece - il protagonista indiscusso della sesta storia. Collaboratore di Eat Parade e, ormai, chef di professione, Andy Luotto ha da poco pubblicato il suo primo libro di ricette col gustoso e ironico titolo di “Faccia da chef”. Una scheda di approfondimento, dal divertente titolo “L’Andypasto”, illustra la filosofia “cucinaria” dell’attore e i suoi principali comandamenti: 1) materie prime di qualità e tempi di cottura ridotti al minimo; 2) stagionalità; 3) manualità e gestualità; 4) conoscenza del prodotto nelle sue fasi di crescita e, quinto e ultimo comandamento, divertimento in cucina, contro ogni routine. La settima storia, intitolata “Da Superquark alla grande cucina cinese”, racconta di Giacomo Rech, uno degli autori del “mitico programma di divulgazione scientifica di Piero Angela” e dell’“avventura del Green T. (gioco di parole per tè verde), il ristorante cinese che Giacomo e la moglie Yan hanno aperto a Roma nel 2005”. Una storia d’amore italo-cinese, basata sulla condivisione di “saperi e sapori” che ha portato alla nascita di “uno dei pochi locali in Europa dove si possa provare la cucina cinese di alta scuola”. Due ricette e una scheda di approfondimento sull’anatra laccata alla pechinese, ormai “entrata nell’immaginario gastronomico dell’intero pianeta”, accompagnano l’insolita storia di cibo e amore di Giacomo Rech e consorte. Al centro dell’ottava storia è “l’inaspettata svolta bucolica” di Giampaolo Sodano, giornalista e direttore prima di RAI2, poi di Canale 5, diventato coltivatore di ulivi, produttore di olio e leader dell’Associazione italiana frantoiani oleari. Dopo aver acquistato un frantoio nella Tuscia viterbese, tra Nepi e Vetralla, Giampaolo Sodano è ora sempre più impegnato nella difesa e nella salvaguardia dell’olivicoltura, vero e proprio “simbolo della dieta mediterranea”. Con il suo “Progetto Pane e olio” ha prodotto un film, prima, e poi una guida ai frantoi artigiani, entrambi col titolo di “Pane e olio”. All’abbinamento tra carcere e cucina, come “opportunità di lavoro gratificante e non banale”, “formazione professionale” e occasione di riscatto sociale, è dedicata la nona storia di “Rinascere in cucina”. Sono brevemente raccontate le esperienze di alcune case di reclusione italiane e di alcuni gruppi di detenuti, da Rebibbia a Opera, da Padova a Volterra e di alcune cooperative sociali di reclusi. Ormai notissima è la cooperativa di catering “Abc” costituita presso il carcere di Bollate, nella Casa di reclusione di Milano. Nella decima storia, invece, “si parla di cibi e di vini veramente fuori dal comune...buoni e genuini, ma soprattutto dal sapore della dignità recuperata e della giustizia”. Si tratta, infatti, della “rete delle cooperative sociali che in tutto il sud, ormai, sono nate sotto l’egida di Libera Terra”, nei terreni confiscati alla mafia, alla ‘ndrangheta, alla sacra corona unita e alla camorra. Dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, legate ai nomi di Placido Rizzotto, Pio La Torre, Peppino Impastato, Beppe Montana e Don Peppe Diana, oltre a produrre cose “buone, pulite e giuste” per dirla con le parole di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, le cooperative di Libera, associazione fondata da Don Luigi Ciotti, “organizzano campi estivi” e sono ormai diventate un punto di riferimento indispensabile per tutti coloro che si battono per un’agricoltura onesta e un turismo sociale, responsabile e eco-compatibile. L’undicesima storia è dedicata per intero alla Toscana e, col titolo di “Principe del vino”, a Duccio Corsini, collezionista d’arte e produttore di vino, ultimo discendente di un’antica e nobile famiglia fiorentina. Nelle tenute famigliari di San Casciano in Val di Pesa e della Marsiliana, “nel cuore della Maremma”, agricoltura, vino, turismo e buona cucina si fondono e s’integrano armonicamente tra loro, per promuovere il made in Italy anche attraverso l’abbinamento fra opere d’arte e vini di prestigio. La dodicesima e ultima storia di Rinascere in cucina ci conduce fino in Trentino, nella Bersntol o Valle dei Mòcheni, che lo scrittore austriaco Robert Musil aveva definito col poetico nome di “La valle incantata”. “Isolata per secoli”, la valle si è ora trasformata, grazie ai soci della Cooperativa di Sant’Orsola, “nel principale luogo di produzione” di piccoli frutti come ”fragoline, more, lamponi, mirtilli e ribes”, fino a coprire “la metà del mercato italiano”. Grazie al loro lavoro si è riusciti a bloccare l’esodo dei valligiani e lo spopolamento della vallata, diventata ora anche simbolo e meta di “un turismo enogastronomico e sostenibile”. Altre 24 gustose ricette accompagnano anche questa terza e ultima parte del libro. Aldo Maiorano

lunedì 23 luglio 2012

Appunti sulla Déclaration pour l’Indépendance de l’Esprit del 1919 e su Romain Rolland, Benedetto Croce e Roberto Bracco

In data 5 agosto 1919 Benedetto Croce annotava nei suoi “Taccuini di lavoro” le seguenti laconiche parole: “Nella mattina, scritta una lettera al Johannet a proposito del manifesto Romain Rolland”. A quale manifesto alludeva il filosofo? Si tratta, senza alcun dubbio, del manifesto redatto da Romain Rolland nel marzo del 1919, col titolo Déclaration pour l’Indépendance de l’Esprit. Romain Rolland, cui nel 1915 era stato conferito il Premio Nobel per la letteratura, lo aveva già spedito, nello stesso mese del 1919, a Rabindranath Tagore, poeta, drammaturgo e filosofo indiano, primo premio nobel letterario non occidentale nel 1913. L’appello, col titolo “Fiére déclaration d’intellectuels”, fu poi pubblicato sul quotidiano francese “L’Hunanité” il 26 giugno 1919 e, alla data del 23 giugno, aveva già ricevuto l’adesione di molti intellettuali europei (tra gli altri, Henri Barbusse, Paul Signac, A. Einstein, Hermann Hesse, Stefan Zweig, Bertrand Russell). Unici due italiani a firmare il manifesto, destinato a mobilitare l’opinione pubblica intellettuale a livello internazionale, furono Benedetto Croce e Roberto Bracco, (Napoli, 10 novembre 1861 – Sorrento, 20 aprile 1943) giornalista, scrittore e drammaturgo, esponente di primo piano del teatro italiano tra Otto e Novecento, perseguitato e condannato all’oblio dal fascismo. Lo stesso Romain Rolland, come risulta dal volume di B. Croce, Epistolario I. Scelta di lettere curata dall’autore 1914-1935, pubblicato a Napoli dall’Istituto Italiano per gli Studi Storici nel 1967, aveva scritto al Croce, in data 3 aprile 1919, “chiedendogli l’adesione al suo manifesto, del quale gli mandava una prima stesura: Un certain nombre d’écrivains , artistes, savants de tous pays, émus de voir se prolonger les passions nationales qui ont sévi, pendant la guerre, parmi les intellectuels, ont conçu le projet de publier, pour réagir sur l’opinion, l’Appel ci-inclus, qui est une sorte de Déclaration d’Indépendance de l’Esprit”. All’invito di Rolland il Croce rispondeva con una lettera, datata Napoli, 9 aprile 1919, pubblicata nel già citato “Epistolario I”, con le seguenti parole: “Ill. mo Signore, Volentieri metto la mia firma al suo nobile appello; ma desidero, perché le siano chiari il senso e i limiti della mia adesione, che Ella scorra il volume che le invio, e che raccoglie tutto quanto mi è accaduto di scrivere durante la guerra. Vi troverà in qualche punto citato anche il suo nome, e accennata la ragione del mio dissenso. Io credo sacra la guerra, ma altrettanto sacra la verità, che non deve essere piegata a strumento di guerra. Gli strumenti di guerra si fanno con altre materie”. Il volume cui il Croce fa riferimento e che invia a Rolland è “Pagine sparse, serie II, Pagine sulla guerra, Napoli, Ricciardi, 1919, successivamente ristampato dall’editore Laterza, nella serie dei suoi “Scritti vari”, col titolo di “L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra”. Motivo principale di queste pagine era, come ricorda lo stesso Croce nell’Avvertenza del dicembre 1927, “la difesa del comune patrimonio civile e della comune opera del pensiero e dell’arte tra i contrasti e le lotte politiche e guerresche dei popoli. Congiunta a quel motivo andava l’indignazione contro gli uomini di scienza, che presero allora a falsificare la verità sotto pretesto di servir la patria o il partito politico, ma in effetto per loro piccolezza di mente e bassezza d’animo, e iniziarono quel mal abito, che grava ora dappertutto, e contro il quale è stata testé coniata la formula fortunata della trahison des clercs”. In queste stesse pagine, inoltre, Croce polemizzava anche “contro la concezione astratta o tribunalizia delle cose politiche e in difesa del principio di forza o potenza”, respingendo, tuttavia, “il concetto della forza intesa materialisticamente, e della politica come separata e disparata rispetto all’etica, verso la quale la ponevo al tempo stesso specificata e sottomessa. Per questa ragione ho sempre rifiutato” – scriveva Croce a conclusione della sua Avvertenza – “ogni sorta di statolatria, ancorché si presenti o ripresenti come idea etica dello Stato e si rivesta della confacente rettorica sullo Stato che è il Dovere e che è Dio, e altrettali goffaggini. Rimango anche in questa parte nella tradizione del pensiero cristiano, che dà a Cesare quel ch’è di Cesare, ma sopra a Cesare innalza la coscienza religiosa e morale, la quale solamente eticizza di volta in volta l’azione politica, pur riconoscendone e rispettandone e adoprandone la logica che le è propria”. L’articolata, complessa e dialettica concezione crociana del rapporto tra politica ed etica, il suo storicismo, il suo realismo e l’insofferenza verso ogni forma di astrattismo razionalistico spiegano, dunque, “il senso e i limiti” dell’adesione al “nobile appello” di Romain Rolland e, al tempo stesso, “la ragione” del suo dissenso “con l’autore del Jean-Cristophe, divenuto autore dell’Au-dessus de la mêlée”, (Al di sopra della mischia - 1915), raccolta di articoli pubblicati sul Journal de Genève, e in seguito in volume, caratterizzati da una forte intonazione pacifista e antimilitarista. Così come spiegano qualche accenno polemico di Croce, nelle Pagine sulla guera”, nei confronti ”dell’ottimo Romain Rolland”, , da lui definito come “fulminatore di rimbrotti e pedagogo di giustizia a tutti i popoli di Europa che combattono, e tutti li biasima e li ama alla pari” o la sua critica alla “sconvenienza” o “vacuità” del “parteggiare in nome della scienza quando (come dice la parola del buon senso) la parola spetta al cannone”. Nella già citata lettera dell’Epistolario allo scrittore e drammaturgo francese, è proprio lo stesso Croce a suggerirgli, “posto che l’éscrivain sia io”,“il nome di Roberto Bracco” “come artiste”, aggiungendo: “Come scienziato non saprei chi suggerirle. Sono così pochi coloro che abbiano mostrato coraggio mentale!”, confessando, altresì, la sua limitata conoscenza del “mondo dei naturalisti e matematici” e invitando Rolland, a tal proposito, a rivolgersi “al sen. G. Battista Grassi, professore nell’Università di Roma, o al sen. Giacomo Ciamician dell’Università di Bologna”. Divertente è il Post Scriptum posto da Croce in calce alla lettera: “ A proposito di fraternità, se le può far piacere la informo che, durante la guerra, nei più accesi giornali italiani, tornava frequente la frase: quei due perfetti idioti (pardon!) che rispondono ai nomi di Romain Rolland e Benedetto Croce” e concludeva, causticamente, “Si può essere affratellati in modo più compiuto di così?”. Ma, che tipo di appello avevano sottoscritto Benedetto Croce, pur con tutte le sue perplessità, e Roberto Bracco? “La dichiarazione dell’indipendenza dello spirito”, era, in effetti, un duro atto di accusa, proprio nei confronti degli intellettuali europei, accusati di aver messo “la propria scienza, la propria arte, la propria ragione al servizio dei governi». Con un sorprendente incipit dal sapore quasi marxista: «Lavoratori dello spirito, compagni dispersi attraverso il mondo, separati per cinque anni dagli eserciti, dalla censura e dall’odio delle nazioni in guerra...», Romain Rolland rivolgeva un accorato appello agli intellettuali a ritrovare un’unione fraterna più solida e forte di quella di cui avevano dato così scarsa prova nel corso della prima guerra mondiale. Schiavi della propaganda nazionalistica, la maggior parte degli intellettuali avevano, infatti, tradito lo Spirito, di cui erano a servizio, avvilendo e degradando il pensiero, di cui dovevano essere i rappresentanti, riducendosi a meri strumenti delle pressioni e degli interessi egoistici di un clan politico, sociale, d’uno Stato, d’una patria o di una classe. Consapevole dei disastri arrecati dall’assenza di qualsiasi autonomia dal potere, compreso quello di aver «lavorato a distruggere la comprensione e l’amore per gli uomini», Romain Rolland sollecitava il mondo della cultura a ritrovare le ragioni universali dello Spirito, «che non è al servizio di alcunché», a onorare la sola verità, “libera, senza frontiere, senza limiti, senza pregiudizi di razza e di casta»; e, soprattutto, a difendere le ragioni dell’Umanità e, al di là della diversità dei popoli, del Popolo di tutti gli uomini, tutti egualmente fratelli. “La dichiarazione dell’indipendenza dello spirito”, nonostante il suo linguaggio fortemente lirico e drammatico, è un documento di rara lucidità politica per l’epoca in cui è stato scritto. Siamo, infatti, nel l9l9, alla vigilia cioè di una terribile fase storica che sarà tragicamente segnata dal quasi totale asservimento degli intellettuali alle ideologie delle dittature fascista e nazista e del totalitarismo comunista, triste preludio allo scoppio di un’altra guerra forse ancora più “spaventosa per estensione, per lunghezza, per violenza”. Una copia autografa della Declaration de l’Indipendance de l’Esprit manoscritta e con testo in francese, firmata da Romain Rolland, è tuttora custodita anche nel fondo Roberto Bracco – Aurelia Del Vecchio, a testimonianza dell’impegno civile e dell’antifascismo dello stesso Bracco, personalità poliedrica di scrittore, sceneggiatore, critico teatrale, poeta, politicamente vicino alle posizioni di Giovanni Amendola. Sodale di Croce e intellettuale di rara integrità morale, eletto deputato, decide, nel 1924, dopo il delitto Matteotti, “di condurre dai banchi dell’opposizione una lotta intransigente contro la dittatura fascista.” Fu tra i firmatari, nel 1925, del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. “La risposta di Mussolini non si fa attendere”. Come scrive Antonio Greco, in una nota dal titolo Il teatro della libertà di Roberto Bracco, “inizia cosi una dura repressione per ridurlo al silenzio; una persecuzione che lo coinvolge sul piano fisico, morale, umano, artistico.” In una lettera, in data 12 agosto 1926, Roberto Bracco aveva già confidato a Benedetto Croce il suo depresso stato d’animo. “Ho, ahimé, la sensazione d’una solitudine profonda. Ad essa – che poi non è altro che uno stato di tristezza – hanno contribuito non poco le parole che mi disse ieri Giustino Fortunato: - Caro Bracco, l’Italia resterà così ancora per trent’anni!”. Benedetto Croce così gli rispondeva, in data 16 agosto 1926, dalla “piena tranquillità del nostro romitorio alpino” di Meana di Susa, dov’era in vacanza, cercando di consolarlo: “Mio caro Bracco, L’amico Giustino non deve troppo attristarvi. Da tanti anni che lo conosco, gli ho sempre udito profetare il peggio, che non è accaduto. Non so, naturalmente, quanto tempo durerà la situazione presente: ma certo non ne sanno più di me coloro che prevedono una lunghissima o lunga durata: soltanto che essi lavorano d’immaginazione e io m’inibisco questo lavoro. L’opposizione è ora apparentemente indebolita o annullata. Ma solo apparentemente. A tenerla viva e ad eccitarla ci pensano gli stessi uomini del regime, offendendo i sentimenti più gelosi dell’umana dignità. Ed io credo alla decisiva efficacia delle forze morali. D’altra parte, sdoppiandomi, come soglio fare, e passando a guardare non più da uomo di passione liberale, ma da filosofo e da storico, penso che l’Italia aveva bisogno, per la sua leggerezza, di un castigo come questo che le è caduto addosso, e che forse, se cessasse troppo presto, non produrrebbe il beneficio educativo che è da sperare che produca. Quanto a noi, dico agli uomini della nostra generazione e della nostra fede, dobbiamo seguitare a fare quel che facciamo: dare l’esempio di tener fermo. Vedremo o no migliori tempi, questa cosa è secondaria: intanto li portiamo nel nostro cuore, e questo basta a confortarci e rasserenarci. Anche l’amicizia che ora ci stringe, caro Bracco, che stringe me a voi come ad altri amici rispettabili, ha un sapore che prima non aveva. La nostra vita ha perduto in estensione ed ha guadagnato in intensità. E quanta gente possiamo, non dirò disprezzare, ma compatire di una poco onorifica compassione”. Dopo il fallito attentato del 31 ottobre 1926 a Mussolini, ad opera del giovanissimo anarchico bolognese Anteo Zamboni, le squadracce fasciste, a Napoli, come altrove, cominciarono ad assaltare le case di molti oppositori. Anche Benedetto Croce subì una spedizione punitiva fascista nella sua casa napoletana, la notte del 1° novembre 1926. «Siamo stati svegliati alle 4 da un gran fracasso di vetri rotti e di passi affrettati - si legge in un’ annotazione dei Taccuini - era una dozzina o quindicina di fascisti, venuti con un camion a devastarmi la casa». Stessa e, anzi, peggior sorte toccò a Roberto Bracco in quegli stessi giorni. Come scrive Antonio Greco, nella sua nota già citata : “Nel novembre del 1926, la sua casa viene praticamente distrutta dai fascisti e, qualche tempo dopo, egli stesso riesce miracolosamente a sottrarsi ad un ignobile agguato. Ma non si piegò. Rifiutò di scendere a patti col regime e, condannato quasi al1’esilio nella sua abitazione, visse, in solitudine, anni tremendi col solo conforto di pochissimi amici e familiari, dedicando parte della sua vita alla edizione delle sue opere teatrali. Forse l’episodio, il più vergognoso dell’accanimento del regime nei suoi confronti- come ha ricordato Pasquale Iaccio”, (autore del bel libro "Un intellettuale intransigente: il fascismo e Roberto Bracco", Napoli, Guida, 1992) e “che ha curato lo splendido epistolario tra il drammaturgo napoletano e la sua giovane moglie, Aurelia Del Vecchio - accade a Roma, nel 1929. Qui il suo ultimo lavoro “I pazzi”, messo in scena in un teatro romano, viene improvvisamente interrotto da una squadraccia fascista. Che distrugge ogni cosa e decreta la fine della rappresentazione. Da quel momento cala il silenzio sull’opera dell’ autore di teatro italiano in quegli anni più rappresentato e conosciuto all’estero e in più occasioni candidato al Premio Nobel.” Aldo Maiorano Per saperne di più su Roberto Bracco Pasquale Iaccio, L’intellettuale intransigente: il fascismo e Roberto Bracco, Napoli, 1992. Mario Prisco, L’alfiere della scena. Il teatro di Roberto Bracco. Oédipus, Salerno/Milano, 1911. A. del Vecchio, A. Grieco, P. Iaccio e F. Soverina, Omaggio a Roberto Bracco; in: “64° Anniversario delle Quattro Giornate di Napoli”, Istituto Campano perla Storia della Resistenza, Napoli 2007. Voce “Roberto Bracco” su vari siti web, tra cui: http//it.wikipedia.org e http/www.teatro.unisa.it

sabato 14 luglio 2012

Bruno Gambacorta, "Tg2 Eat Parade. Alla scoperta di personaggi, storie, prodotti e ricette fuori dal comune", Milano, Rai Eri - Antonio Vallardi Editore, 2011

“Che cos’è viaggiare? Viaggiare è conoscere luoghi, genti, paesi. E qual è il modo più semplice, il modo elementare di viaggiare? Ma è di mangiare, di praticare la cucina di un paese dove si viaggia. Perché se voi ci pensate bene, nella cucina c’è tutto: c’è la natura del luogo, il clima, quindi l’agricoltura, la pastorizia, la caccia, la pesca. E nel modo di cucinare c’è la tradizione di un popolo, c’è la storia, la civiltà di questo popolo.” (Mario Soldati, "Viaggio nella valle del Po. Alla ricerca dei cibi genuini”, 1957). “Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando non ci saranno più le lucciole, le api, le farfalle, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita.” (P.P. Pasolini, 1962) “Appartengo alla Terra. E come me tutta l’umanità, e ogni forma di vita. Piante e foreste, frutti e fiori, e ancora fiumi, monti, animali d’ogni specie e tutto ciò che il lavoro umano ha plasmato e trasformato nel tempo. San Francesco la chiamava sorella e madre, che ci governa e dà sostentamento. E per essa rendeva lode al Creatore. La Terra non appartiene a nessuno o non dovrebbe appartenere a nessuno; i suoi frutti appartengono a tutti o dovrebbero appartenere a tutti. Eppure l’avidità di pochi prende possesso di immensi spazi, estromette intere comunità, distrugge la bellezza del paesaggio e la fertilità dei suoli, gli arroganti prevalgono sugli umili. Umile, da humus, colui che è vicino alla terra. Da sempre amo quella parte di umanità che si prende cura della Terra. Non ho mai capito perché viene considerata come l’ultima ruota del carro. Le alte gerarchie del sapere, della conoscenza e della politica non lasciano spazio ai contadini, ai pastori, ai pescatori e alla parte più sensibile di essi: le donne, gli anziani, gli indigeni. Eppure grazie a loro condividiamo il cibo, energia della vita. Essi conoscono le cose intime della natura, le proprietà delle erbe, il cambiamento del tempo, i movimenti delle stelle, le fasi della luna, le buone pratiche per accudire l’orto. Figli della Terra, sanno governare il limite nelle loro azioni, praticano la vera economia. È con la Terra, è con la natura che i nostri conti non tornano. Da troppo tempo consumiamo e sprechiamo più di quanto produciamo, prendiamo più di quanto diamo. Riconciliarci con laTerra è l’unico modo per voler bene a noi stessi e agli altri e forse è l’unico modo per uscire dalla crisi.” (Carlo Petrini, 2012) A Mario Soldati, “scrittore, regista, sceneggiatore, critico d’arte, autore televisivo ed enogastronomo”, va forse riconosciuto l’esplicito merito di aver elevato, tra i primi, il cibo, il vino e i prodotti enogastronomici tipici della terra ad argomenti e temi degni di interesse culturale, non solo nei suoi romanzi e scritti letterari, ma anche e proprio in televisione. Il suo "Viaggio nella Valle del Po. Alla ricerca dei cibi genuini" del 1957 fu, infatti, come ha recentemente ricordato Martino Ragusa in un suo articolo, “il primo programma nella storia della televisione italiana a occuparsi di cibo e di cucina”, di cibo come cultura e di cultura del cibo. Gli fecero seguito, rispettivamente nel 1974 e nel 1979, altri due programmi di Luigi Veronelli, "A tavola alle 7" e "Viaggio sentimentale nell'Italia dei vini". Sulle loro orme si posero, poi, le ormai storiche trasmissioni di “Linea Verde” e “Linea Blu”, nate, la prima, negli anni ’80 e la seconda negli anni ’90. Oggi, tra gli eredi di questa nobile tradizione televisiva si può, senza alcun dubbio, annoverare Bruno Gambacorta, inventore e anima di “Tg2 Eat Parade” e uno dei maggiori esperti di enogastronomia in televisione. Forse, però, non tutti sanno che “TG2 Eat Parade”, primo telegiornale italiano con una rubrica settimanale dedicata all’enogastronomia e all’alimentazione, seguita ormai da due milioni e mezzo di spettatori, nasce in realtà da una serie di servizi giornalistici realizzati proprio a Torino, città natale di Mario Soldati, alla metà degli anni Novanta, da Bruno Gambacorta e dal dietologo Giorgio Calabrese, aventi per tema i ristoranti e le cucine etniche presenti nel capoluogo piemontese e in Italia. Da quel “seme”, a dire il vero fecondo, sarebbe poi venuta alla luce, nel novembre del 1998, grazie anche alla “lungimiranza” di Clemente Mimun, l’ormai storica rubrica “Eat Parade”, curata dal 2004 dallo stesso vicedirettore del TG2 Marcello Masi. A raccontarlo è lo stesso giornalista del Tg2 Bruno Gambacorta, ideatore e autore del programma e volto ormai noto della televisione, nell’omonimo libro pubblicato da RAI Eri e Vallardi nell’ottobre del 2011 e, per ora, sua opera prima. Come ha autorevolmente scritto Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e ideatore dell'Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, con sede a Pollenzo, frazione del comune di Bra (Cuneo), primo “ateneo del gusto” al mondo, a Eat Parade va riconosciuto l’indiscutibile merito di aver “fatto conoscere al vasto pubblico tante persone che lavorano, in silenzio e con fatica, per salvaguardare la nostra ricchezza agricola e gastronomica”. Un merito non da poco, frutto di un attento e paziente lavoro di ricerca, comunicazione e divulgazione, se solo si pensa alla straordinaria importanza economica, sociale e culturale di quel tessuto agroalimentare, enogastronomico e turistico, vera e propria “miniera a cielo aperto” del nostro “bel paese”, che tutto il mondo ancora, nonostante tutto, ci invidia. Il libro, nato come “logica conseguenza di quasi 15 anni di appuntamenti settimanali” con il primo “Tg del cibo e del vino”, si presenta, dunque, come una “versione scritta” della trasmissione televisiva ma più ricco e denso di particolari, dettagli e notizie sulle storie di vita vera e sui personaggi, luoghi e prodotti raccontati. Scritto con uno stile efficace e diretto da giornalista televisivo, ma con grande passione, umanità e professionalità e con uno sguardo sempre attento e partecipe alla storia, alle tradizioni e alle tipicità del territorio, il libro si compone di 35 brevi ma dense storie, faticosamente selezionate fra le più interessanti della rubrica televisiva, suddivise in tre parti o sezioni: “Saper fare”, “Far sapere” e “Rinascere in cucina”. La prima parte è una sorta di viaggio enogastronomico in undici regioni d’Italia “alla scoperta di personaggi e prodotti fuori dal comune, salvati dall’estinzione o reinventati all’insegna della qualità”. La seconda parte è dedicata, in giro per nove regioni italiane, ad alcuni dei migliori “divulgatori appassionati e colti, capaci di scegliere e proporre il meglio dell’enogastronomia di qualità”. La terza e ultima parte raccoglie, in nove regioni, “le storie di chi si è inventato una nuova vita tornando a coltivare la terra, a produrre o raccontare cibo e vino”. Ognuna delle regioni italiane è, comunque, degnamente rappresentata almeno con una storia e tutte le 35 storie sono, altresì, arricchite da oltre settanta ricette, tutte, dalle più semplici a quelle più complesse, rigorosamente d’autore. Il libro si avvale, inoltre, di una Prefazione di Marcello Masi, vicedirettore del TG2 e attuale curatore della rubrica “Eat Parade” e di un’introduzione e di due pagine di ringraziamenti dello stesso Bruno Gambacorta, in primis quelli alla moglie Luisa Sodano, nonché di alcuni utili ed efficaci indici delle 73 ricette ospitate nel libro, di 74 indirizzi utili, di 202 nomi e di 194 luoghi citati nel testo. Non si può fare a meno di ricordare la recentissima versione del libro in un economicissimo formato Ebook, né di citare l’omonima pagina Facebook di Eat Parade che, a completamento del libro, lo arricchisce d’immagini, foto, illustrazioni, note, approfondimenti continuamente aggiornati. Il libro è dedicato, segno di grande sensibilità e umanità dell’autore, alla memoria del fratello Lucio, esperto di letteratura e cultura polacche, scomparso prematuramente nel 2005 dopo una lunga malattia. In un paese in cui si parla e si scrive di cibo e cucina in termini, molto spesso, solo divagativi e superficiali o di semplice entertainment, il libro di Bruno Gambacorta ha il merito di farci riflettere, con leggerezza e lievità, sui complessi e profondi rapporti tra storia, agricoltura, enogastronomia, socialità e turismo. Non si tratta, dunque, dell’”ennesimo volume dedicato alla cucina nato dal tubo catodico” e neppure del solito ricettario, ma di un affresco narrativo vivo e attuale, avvincente e coinvolgente, sulla realtà non solo enogastronomica italiana. Senza alcuna pesantezza dottrinaria e/o ideologica, ma con grande sensibilità etica, politica e culturale, il libro ci immerge, infatti, nella ricchezza del nostro patrimonio storico e antropologico e ci aiuta a riscoprire le radici e le tradizioni enogastronomiche più antiche, ma anche le sue espressioni più nuove, delineando, al tempo stesso, anche un aggiornato ritratto giornalistico dell’Italia migliore, sia dal punto di vista gastronomico, sia dal punto di vista sociale. Raccontando, in modo semplice ma sempre efficace, personaggi, talvolta anonimi e talaltra famosi, e storie, talvolta dure, coraggiose e sofferte d’impegno civile e riscatto sociale, talaltra curiose, originali, divertenti e insolite, il libro di Bruno Gambacorta ha, a mio parere, anche un altro indubbio merito. Esso si propone, infatti, anche come una sorta di originale guida turistica d’Italia. Adottando la formula narrativa del racconto di viaggio, cara a Mario Soldati, Bruno Gambacorta invita il lettore amorevolmente a riscoprire e visitare, attraverso le sue narrazioni di cibi e di vini e i suoi percorsi enogastronomici, alcuni dei luoghi e dei paesaggi più belli, dai più noti a quelli meno conosciuti, del nostro territorio. E in questo complesso intreccio tra saperi e sapori, tra cultura del cibo e agricoltura, storia, antropologia, tra piaceri del gusto e impegno civile e sociale, tra enogastronomia e turismo, incarnato in un racconto diretto e coinvolgente di storie, reti sociali e personaggi veri e concreti, sta, forse, proprio il pregio migliore del libro di Bruno Gambacorta e del suo approccio olistico e interdisciplinare alla cultura dell’alimentazione. Perché, anche attraverso il cibo, inteso in questo modo, si può e si deve ancora continuare a raccontare la realtà del nostro paese che, per uscire dalla crisi in cui versa, non può non ripartire proprio dalle sue bellezze, vocazioni ed eccellenze più autentiche. Aldo Maiorano . Scheda biografica personale di Bruno Gambacorta Bruno Gambacorta è una delle più note firme del TG2, oltre che inventore e autore di Eat Parade, il primo telegiornale italiano con una rubrica dedicata all’enogastronomia, seguito mediamente da 2,5 milioni di spettatori ogni settimana da ormai quasi15 anni. Nasce a Napoli nel 1958, dove ha studiato presso il Ginnasio-Liceo “Jacopo Sannazaro”. Ha sempre voluto fare il giornalista ma, prima di riuscirci, si è laureato in medicina nel 1983 con 110 e lode e con una tesi sui rischi professionali della danza. Entra in RAI vincendo una borsa di studio e si trasferisce a Milano, formandosi in quotidiani e mensili, prima di essere assunto nel maggio del 1986. Diventa giornalista professionista nel 1987. In Rai da oltre 25 anni, ne ha trascorsi nove alla redazione di Milano, occupandosi soprattutto di cultura e spettacoli e quindici al Tg2, dove si occupa di medicina e sanità, nonché di alimentazione e di cultura enogastronomica per la rubrica settimanale Tg2 Eat Parade, da lui fondata nel 1998. Ha vinto numerosi premi giornalistici, fra i quali il CNN World Report Award nel 1996 per il Best Medical Report, il Premio Voltolino per la divulgazione scientifica e l'Oscar del vino 2002 assegnato dalla rivista Bibenda. Nel 2010 vince il Premiolino, il più antico e prestigioso premio del nostro paese per il giornalismo enogastronomico. Appassionato di gialli e cultore in particolare di Michael Connelly, di cui custodisce in casa l’opera omnia in lingua originale, cinefilo e grande cultore del rock degli anni Settanta, nella sua second life (dopo quella di aspirante medico) ha frequentato festival e concerti, registi e rockettari, prima di passare, nella sua terza vita, a cantine e cucine, chef e produttori di qualità. Gli piacciono i risotti e le bistecche di chianina, e impazzisce letteralmente per i dolci napoletani. Con la moglie Luisa gira il mondo, anche se ha visto solo una cinquantina di paesi. È appena un po’ meno interista di Beppe Severgnini, a fianco del quale ha assistito al trionfo di Madrid 2010. Per scrivere il suo libro Eat Parade (Vallardi 2011) ha sospeso la palestra e ha preso tre chili. Con il conterraneo Roberto Saviano condivide, fra l’altro, “il primo punto del decalogo sulle cose per cui vale la pena vivere: la mozzarella”, anche se non necessariamente ed espressamente quella di Aversa. “Tg2 Eat Parade” è anche il suo primo libro, di cui è disponibile la versione e-book. Collegata al libro e suo naturale completamento è l’omonima pagina facebook, ricca di foto, immagini, video, note, approfondimenti in aggiornamento continuo.