venerdì 11 ottobre 2024

Diario delle giornate di deportazione. Un diario anonimo sul rastrellamento e la deportazione della popolazione di San Salvatore Telesino in provincia di Benevento da parte dei soldati tedeschi nell'ottobre del 1943

Pubblicato nel mese di ottobre 2022 da Fiori di Zucca Edizioni per conto dell’Istituto Storico del Sannio Telesino (Quaderno di cultura n.3), il “Diario delle giornate di deportazione, con note introduttive e approfondimento storico a cura di Emilio Bove, è il resoconto del rastrellamento e della deportazione della popolazione civile, di età compresa tra i 16 e i 65 anni, di San Salvatore Telesino in provincia di Benevento, da parte dei soldati tedeschi nell’ottobre del 1943. Stampato per la prima volta in forma anonima nell’ottobre del 1944, a distanza di un anno dagli eventi, dalla Tipografia “La Moderna” di Piedimonte d’Alife, il diario è in realtà “attribuibile alla signora Anna Maria Caccavale”, insegnante elementare e moglie di Alfredo Di Luise, uno dei deportati di San Salvatore Telesino, a cui il marito aveva probabilmente confidato e raccontato i particolari della drammatiche vicende che aveva vissuto.
Come scrive il medico e scrittore Emilio Bove, autore di diverse pubblicazioni di carattere storico e autore del bel racconto di successo “L’ultima notte di Bedò” con allegato Dossier, dedicato ai medesimi fatti storici, si tratta dunque di “un diario fortemente attendibile, poiché le notizie in esso riportate provengono da fonti dirette, da coloro che vissero in prima persona quei momenti convulsi che segnarono la popolazione di San Salvatore Telesino”.
Il “Diario delle giornate di deportazione” è opportunamente corredato e arricchito di brevi cenni biografici sull’autrice del Diario stesso, con foto della famiglia “gentilmente concesse dal dott. Giancarlo Di Luise, figlio di Alfredo e di Anna Maria Caccavale”, da brevi note introduttive sul testo e da un inquadramento e approfondimento storico, sempre a cura di Emilio Bove, relativo all’anno cruciale del 1943 in generale e, in particolare, nella Valle Telesina, dall’elenco dei deportati e da una galleria fotografica con riferimenti bibliografici essenziali ma significativi. Il Diario, poco più di una ventina di pagine, inizia all’alba del terribile sabato 9 ottobre 1943 quando, in una giornata cupa e triste, umida e piovosa, quasi “presagio di sventura” di tutte quelle “tragiche giornate dell’autunno 1943”, “i soldati tedeschi armati di fucile mitragliatore, girano le vie del paese frugando casa per casa, allo scopo di rastrellare uomini e ragazzi” e termina il mercoledì 13 ottobre 1943.
In un linguaggio attento a una “puntuale cronaca giornaliera -essenziale ma rigorosa-“ ma non privo di coinvolgimento e tensione emotiva, il testo racconta la cronaca di quei cinque giorni di prigionia e al lettore sembra davvero di riviverli in prima persona attraverso i ricordi e le emozioni dei diretti protagonisti. Particolarmente intensa e coinvolgente l’ultima pagina del diario, forse anche per evidenti ragioni e motivazioni personali di chi scrive, nipote di Aldo Pezzato, uno di quei quattro ragazzi che nella notte tra il 14 e il 15 ottobre 1943 persero la loro giovane vita trucidati orribilmente dai soldati tedeschi nella piccola cappella di San Francesco a Faicchio.
Eccone la trascrizione quasi integrale, dai toni drammatici e intensi.
“Due giorni dopo l’arrivo dei primi si contano i reduci: siamo 124. Ne mancano 4! Essi sono: Rosario De Leva, Benedetto Bove, Franco Dusmet e Aldo Pezzato. Si attende ancora qualche giorno con ansia angosciosa cercando di stornare il sospetto delle famiglie disperate nel doloroso presentimento e intanto si indaga attivamente. Così si riesce a sapere che nei pressi di Faicchio un contadino ha ritrovato nella cappellino di S. Francesco le salme di alcuni giovani e consegna un portafogli nel quale è la tessera d’identità di Franco Dusmet.
Alcuni volenterosi si recano al luogo indicato e trovano i cadaveri dei quattro giovani, stretti l’uno all’altro nel supremo anelito della morte e poco discosti dal corpo di un vecchio di 70 anni, ucciso con loro.
Scappati con noi dal carcere di Piedimonte d’Alife essi non seguirono la nostra strada e vollero andar da soli per una via più breve, verso le loro case e le loro famiglie. Ma andarono verso la morte. Giunti a Faicchio quando più violenta infuriava la battaglia essi, forse, per sfuggire il pericolo o per nascondersi al nemico, si rifugiarono nella chiesetta, ma non furono risparmiati dalla crudeltà tedesca e trucidati attraverso il cancello a colpi di fucile mitragliatore.
Furono trovati addossati l’uno all’altro uniti nella morte così come erano stati uniti nei giorni della prigionia. Le salme sono subito composte da noi stessi in quattro bare uguali che, allineate su un automezzo americano e avvolte nel tricolore, sfilano lentamente per le vie cittadine accompagnate dal dolore di tutto il popolo.
Nel nostro modesto cimitero assistiamo commossi alla inumazione dei nostri compagni ai quali un tragico destino spezzò la promettente giovinezza.

Ma oggi, più che mai Li ricordiamo. Il loro spirito, sempre presente tra noi, si unisce alla schiera gloriosa dei martiri travolti da un destino atroce.”

domenica 15 settembre 2024

Per l'80° anniversario dell'eccidio di Faicchio

Mi rincresce davvero e mi addolora nel profondo, mai come questa volta, in occasione dell’80* anniversario dell’eccidio di Faicchio, non essere presente di persona. Ci tenevo tantissimo ma un’improvvisa influenza con febbre alta mi ha reso impossibile sia partecipare al convegno organizzato dall’ANPI provinciale di Benevento sia a questa commemorazione. Vorrei solo brevemente e semplicemente ricordare le ultime parole scritte da mio Aldo Pezzato, in data 11 ottobre 1943 e indirizzate alla mamma (la mia cara nonna Carmela) dal carcere di Piedimonte d’Alife: “ Ci rivedremo presto e saremo felici”. Purtroppo non andò così! Non si rividero più e quel sogno di felicità fu per sempre stroncato dalla mitraglia nazista, proprio in questa graziosa chiesetta di campagna, presumibilmente nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 1943. Ricordo di essere stato qui l’ultima volta con mia madre Elena e mia zia Maria, qualche anno prima della loro morte. Per volontà di mia madre porto il nome di mio zio Aldo e ho cercato di fare nel mio piccolo qualcosa per cercare di non far dimenticare la sua tragica vicenda e quella dei suoi giovani compagni. Come recita la lapide qui collocata, si trattò di “un’assassinio inumano e feroce”, rimasto per sempre impunito. Occorre continuare a coltivare memoria e ricordo storico, per dignità e non per odio, per le giovani generazioni e per quelle che verranno, anche in direzione ostinata e contraria, per non smettere mai di “accrescere l’orrore della guerra” e l’amore per la libertà e la giustizia, La storia è purtroppo una maestra di vita in larga parte inascoltata e ciò spiega perché siamo condannati così spesso a ripeterne gli errori e gli orrori. A mio zio Aldo, trucidato a poco più di 18 anni, iscritto all’Azione Cattolica e riconosciuto partigiano in qualità di caduto e vittima civile nella Lotta di Liberazione e ai suoi sfortunati compagni di sventura. Un saluto e un grazie di cuore a tutti i presenti, autorità e semplici cittadini, e un abbraccio particolare a Emilio Bove che a questa vicenda ha dedicato un bellissimo racconto con allegato dossier ricco di foto e documenti storici, dal titolo “L’ultima notte di Bedò”. Per ricordarsi di non dimenticare. Grazie e spero a presto. Aldo Maiorano.

mercoledì 27 maggio 2020

Piccolo omaggio a Gianni Rodari

Rodari Gianni, “C’era due volte il barone Lamberto ovvero i misteri dell’isola di San Giulio”, Torino, Einaudi, 1978, p.103 “In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio. Sull’isola di San Giulio c’è la villa del barone Lamberto...”. Si tratta del celebre incipit di uno dei libri più felici, per inventiva e per respiro narrativo, di Gianni Rodari, senza alcun dubbio uno dei più importanti scrittori italiani, e non solo per ragazzi, di tutto il ‘900. L’idea di scrivere questa storia, come ha raccontato l’autore stesso, nasce da “un appunto a margine di un libro sulla religione dell’Antico Egitto”. In quel libro Rodari aveva trovato un versetto che lo aveva colpito in modo particolare: “L’uomo il cui nome è detto resta in vita”. Da questa poetica immagine sui rapporti tra vivi e defunti, i quali continuano a vivere fino a quando si continua a parlare di loro e il loro nome e la loro memoria tornano nei discorsi dei loro cari, ha origine la storia di Lamberto, inizialmente raccontata a voce a decine di scolaresche delle elementari e delle medie e, poi, di volta in volta, arricchita con le critiche, i suggerimenti e le proposte dei ragazzi stessi. Il racconto è divertente e gustoso, pieno di sorprese, ricco di situazioni e personaggi esilaranti e ai limiti del grottesco ed esemplifica, in modo davvero emblematico e significativo, la “Grammatica della Fantasia”, forse la cifra più autentica dell’opera di Rodari, con quel suo gusto tutto particolare dell’infrazione delle regole, della creatività e del gioco sulle e con le parole. Una lettura sicuramente piacevole, dunque, e non solo per i ragazzi ai quali il libro è, in effetti, esplicitamente indirizzato. Si consiglia, tra l’altro, dopo aver letto il libro, un’interessante e altrettanto piacevole gita al lago d’Orta, proprio nei luoghi in cui è ambientata la vicenda e in cui Rodari è nato. Ne vale la pena! La parola all’autore “In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio. Sull’isola di San Giulio c’è la villa del barone Lamberto, un signore molto vecchio (ha novantatré anni), assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre malato. Le sue malattie sono ventiquattro. Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi, bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppia. Accanto a ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte, i cibi permessi e quelli vietati, le raccomandazioni dei dottori...”. “Le favole di solito cominciano con un ragazzo, un giovinetto o una ragazza che, dopo molte avventure, diventano un principe o una principessa, si sposano e danno un gran pranzo. Questa favola, invece, comincia con un vecchio di novantaquattro anni che alla fine, dopo molte avventure, diventa un ragazzino di tredici anni. Non sarà uno sgarbo al lettore? No, perché c’è la sua brava spiegazione... ...Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della storia. Tra l’altro non si sa bene che fine farà Lamberto e cosa diventerà da grande. A questo, però, c’è un rimedio. Ogni lettore scontento del finale può cambiarlo a suo piacere, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche tredici. Mai lasciarsi spaventare dalla parola FINE”. (I brani sono tratti dal primo capitolo e dall’Epilogo del libro). Scheda bio-bibliografica Gianni Rodari nasce a Omegna, sul lago d’Orta, in provincia di Novara, nel 1920. Si diploma maestro e nel 1938, a diciotto anni, comincia a insegnare nelle scuole elementari. Partecipa alla Resistenza nelle S.A.P. (Squadre Armate Patriottiche). Nel dopoguerra, tra il 1948 e il 1950, lavora come giornalista alla redazione milanese de “L’Unità”, iniziando a pubblicare storie e racconti per ragazzi. Nel 1970 gli viene assegnato da una giuria internazionale il premio Andersen, un premio definito “il Nobel della letteratura infantile”. Muore a Roma il 14 aprile 1980. I suoi libri (filastrocche, poesie, favole, racconti e romanzi) sono tradotti in una grande quantità di lingue straniere. Gianni Rodari si avvia ormai ad essere considerato come uno dei più importanti scrittori per ragazzi di tutto il ‘900, oltre a rappresentare per moltissimi insegnanti un punto di riferimento insostituibile nel lavoro educativo. La produzione di Rodari è estremamente ricca ed è pertanto assai difficile scegliere tra le sue opere quelle da definire migliori. Ne indichiamo solo alcune, a scopo puramente orientativo: ”Le avventure di Cipollino” (1950), “Favole al telefono” (1962), “Gip nel televisore” e “Il libro degli errori” (1964), “La torta in cielo” (1966). C’è poi un’opera importante del 1973 dal titolo “Grammatica della fantasia” in cui Rodari, tra l’altro, spiega come i bambini possono inventare, quasi giocando, storie e filastrocche. Uno dei suoi libri più felici è, tuttavia, proprio “C’era due volte il barone Lamberto”, scritto nel 1978. P.S. Questa recensione fu preparata per il mensile d’informazione del Quartiere San Rocco di Monza “Sottopasso”, di cui uscì solo il primo numero nel luglio 1991, anno 1, n.° 0, in attesa di autorizzazione, per la rubrica “Il piacere della lettura”. Non fu mai pubblicata. Il mensile, direttore responsabile Salvatore Pendolino, e della cui redazione facevano parte Giorgio Biffi, Elvio Bramati, Alberto Fontana, Adelfio Moretti, Ennio Ripamonti, Antonella Tarsi, oltre al sottoscritto, nacque “autonomo, indipendente, utile, locale, progressista” e soprattutto “povero” ma fu “stroncato” sul nascere.

I draghi locopei...del 1991!

Zamponi Ersilia, “I draghi locopei. Imparare l’italiano con i giochi di parole”, Torino, Einaudi, 1986, 135 p. Fu Umberto Eco a segnalare per primo, su L’Espresso, la novità dell’esperienza che Ersilia Zamponi andava facendo con i suoi ragazzi: un’attività ricca di apprendimento e di divertimento documentata in questo libro di indubbio successo. Esso raccoglie i giochi di parole sperimentati dall’autrice nell’ambito di alcuni corsi complementari svolti negli anni dal 1982 al 1985, nella scuola media a tempo prolungato di Crusinallo, in provincia di Novara. Il titolo, curioso e simbolicamente fantasioso del libro, “I draghi locopei” è, infatti, nient’altro che l’anagramma dell’espressione “Giochi di parole”. Giocando e divertendosi - ma dov’è scritto che la scuola deve essere necessariamente noiosa? - i ragazzi, guidati dall’insegnante, hanno imparato a usare diversi strumenti di invenzione e gioco linguistici, arricchendo il proprio lessico, utilizzando - come non sempre avviene nelle aule scolastiche - il dizionario della lingua italiana, sviluppando il gusto, la curiosità e l’emozione per la soluzione di un enigma e sperimentando essi stessi la creatività e le infinite possibilità combinatorie del linguaggio verbale. Il libro, che si ispira alle idee e ai suggerimenti pratici di Rodari, Queneau, Dossena, offre un’ampia serie di materiali e giochi linguistici dai nomi spesso misteriosi quali, ad esempio, triangoli e trapezi di parole, zeppe, metagrammi, bifronti, sciarade, acrostici e mesolitici, limerick e via giocando. Per ognuno di essi l’autrice propone una breve spiegazione e riproduce le soluzioni creative individuate dai ragazzi. Un libro, in definitiva, utile, istruttivo e divertente da utilizzare in concreto, e non solo nelle aule scolastiche, per scoprire e/o riscoprire le “potenze bifide ed esplosive del linguaggio” come suggerisce lo stesso Umberto Eco e che offre una significativa testimonianza sulle opportunità didattiche offerte dal tempo prolungato nelle attività cosiddette extra-curricolari. La parola all’autrice Ecco alcuni degli esercizi svolti dalle alunne e dagli alunni di Ersilia Zamponi. ANAGRAMMA: fare un anagramma vuol dire comporre, con le stesse lettere di una parola o frase, altre parole o frasi di diverso significato. Anagrammi di nomi e cognomi: Camorcia Nicola/Rima in coccola. Ersilia Zamponi/Si pela i romanzi. ACROSTICO: scegli una parola e scrivila verticalmente in stampatello, poi componi una frase usando parole che comincino con le lettere incolonnate. Un acrostico composto dai ragazzi: C on I mmenso A more O vunque SLOGAN: giocando con la rima, puoi inventare degli slogan pubblicitari. I Draghi Locopei hanno scritto alcuni slogan per fare pubblicità...alla loro scuola. Eccone alcuni:La Scuola Media Rodari è priva di somari. Vieni al Tempo Pieno se vuoi annoiarti di meno. Facendo 38 ore potrai diventar migliore. Al Tempo Pieno il tempo se ne va in un baleno. Scheda bio-bibliografica Ersilia Zamponi vive a Omegna, in provincia di Novara, dove è nata. Ha cominciato a insegnare fin dall’età di diciotto anni, prima nelle scuole elementari, poi nelle scuole medie. Attualmente presta servizio nella scuola media statale “Gianni Rodari” di Crusinallo. Nel 1986 pubblica, nella collana “Gli struzzi” della casa editrice Einaudi, “I draghi locopei. Imparare l’italiano con i giochi di parole”, in cui raccoglie le attività e i giochi linguistici sperimentati con i suoi allievi del tempo prolungato, negli anni dal 1982 al 1985. Il libro, anche grazie a una recensione di Umberto Eco apparsa su l’Espresso del 23 giugno 1985, riscuote subito un notevole successo. Nel 1988 Ersilia Zamponi pubblica, insieme al poeta Roberto Piumini, un altro volume, sempre nella stessa collana della casa editrice Einaudi, con il titolo di “Calicanto. La poesia in gioco”. Il libro è composto da poesie di Roberto Piumini (poesie che parlano della poesia) e da proposte di lettura, osservazioni e giochi espressivi che Ersilia Zamponi, sviluppando gli stimoli dei testi, ha realizzato con i ragazzi. Proprio recentemente, infine, ha pubblicato un altro suo lavoro, con il titolo “Quaderno di lessico”, vero e proprio strumento operativo e di lavoro didattico che si rivolge in particolar modo agli alunni delle prime classi di scuola media. Al lavoro di Ersilia Zamponi il settimanale “Avvenimenti” ha recentemente dedicato un ampio spazio nel numero 14 del 10 aprile 1991. P.S. Questa recensione fu preparata per il mensile d’informazione del Quartiere San Rocco di Monza “Sottopasso”, di cui uscì solo il primo numero nel luglio 1991, anno 1, n.° 0, in attesa di autorizzazione, per la rubrica “Il piacere della lettura”. Non fu mai pubblicata. Il mensile, direttore responsabile Salvatore Pendolino, e della cui redazione facevano parte Giorgio Biffi, Elvio Bramati, Alberto Fontana, Adelfio Moretti, Ennio Ripamonti, Antonella Tarsi, oltre al sottoscritto, nacque “autonomo, indipendente, utile, locale, progressista” e soprattutto “povero” ma fu “stroncato” sul nascere.

La recensione...ritrovata!

“L’amico ritrovato” di F. Uhlman: un “capolavoro minore”. Uhlman Fred, L’amico ritrovato, Milano, Feltrinelli, 1986. Il libro, da cui è stato tratto recentemente anche un bel film per la regia di Jerry Schatzberg, è un romanzo breve o, più precisamente, una lunga novella, dal titolo originale inglese “Reunion”. Si tratta della storia - narrata dall’autore dal punto di vista di uno dei due protagonisti, Hans Schwarz, figlio sedicenne di un medico ebreo - della breve ma intensa amicizia fra questi e un suo compagno di scuola, di nobilissima famiglia, Konradin Hohenfels. Ambientata nei luoghi dell’adolescenza dello scrittore, tale amicizia nasce, fiorisce e muore nel giro di meno di un anno: dal febbraio alle vacanze di Natale del 1932, un mese prima dell’avvento di Hitler al potere. E si concluderà drammaticamente. Infatti, l’antisemitismo nazista costringerà i genitori di Hans a mandare il figlio negli Stati Uniti d’America e la breve ma profonda amicizia tra i due adolescenti sarà prematuramente spezzata...ma non in modo irrimediabile. Trent’anni dopo, Hans verrà a sapere della morte del suo caro amico Konradin, giustiziato dai nazisti per aver partecipato al complotto per uccidere Hitler, “ritrovando” così ancora vivo e intatto il ricordo e il più autentico significato del sentimento dell’amicizia. La vicenda, dall’esile trama autobiografica, è rievocata con grande nostalgia e tenera malinconia, pur sullo sfondo di una terribile e tragica catastrofe storica che travolgerà, insieme alle vite dei due giovani amici, l’esistenza di milioni e milioni di persone. Una piccola grande storia d’amicizia e sull’amicizia tra ragazzi che, come ci ricorda l’autore stesso, “costituisce una delle esperienze più preziose della vita” proprio per la sua devozione totale e disinteressata. Davvero un “capolavoro minore”. Assolutamente da leggere. La parola all’autore. “Ho esitato un po’ prima di scrivere che avrei dato volentieri la vita per un amico, ma anche ora, a trent’anni di distanza, sono convinto che non si trattasse di un’esagerazione e che non solo sarei stato pronto a morire per un amico, ma l’avrei fatto quasi con gioia...I giovani tra i sedici e i diciotto anni uniscono in sé un’innocenza soffusa di ingenuità, una radiosa purezza di corpo e di spirito e il bisogno appassionato di una devozione totale e disinteressata. Si tratta di una fase di breve durata che, tuttavia, per la sua stessa intensità e unicità, costituisce una delle esperienze più preziose della vita.” “Quanto ai problemi che ci assillavano, cercavamo di risolverli da soli, senza l’aiuto degli altri. Non ci venne mai in mente di rivolgerci ai nostri genitori. Appartenevano a un altro mondo - ne eravamo certi - e non ci avrebbero capito o si sarebbero rifiutati di prenderci sul serio. Di loro non parlavamo mai: ci sembravano lontani come le nebulose, troppo grandi e troppo cristallizzati in convenzioni di un tipo o dell’altro. Konradin sapeva che mio padre faceva il medico, così come io ero al corrente del fatto che il suo era stato ambasciatore in Turchia e in Brasile, ma la nostra curiosità finiva qui ed era forse per questo che nessuno dei due era mai stato a far visita all’altro. Le nostre interminabili discussioni avvenivano per la strada, sulle panchine o negli androni dove andavamo a rifugiarci quando pioveva. Un giorno, mentre eravamo davanti a casa mia, mi venne in mente che Konradin non aveva mai visto la mia stanza, con i miei libri e le mie varie collezioni, e, quindi, sotto l’impulso del momento, gli dissi: - Perché non entri con me?” Scheda bio-bibliografica Fred Uhlman nacque nel 1901 a Stoccarda, capitale del Wurttemberg, nella Germania sud-occidentale, da una famiglia di origine ebraica. Frequentò il liceo classico e, dopo la prima guerra mondiale, si laureò in legge. Non potè, tuttavia, esercitare a lungo in patria la professione di avvocato perché, dopo l’avvento al potere della dittatura nazista di Hitler, fu costretto a lasciare la Germania per sottrarsi alla persecuzione razziale scatenatasi contro gli ebrei. Nel 1933 emigrò, pertanto, negli Stati Uniti d’America, dove si dedicò alla sua professione di avvocato e alla sua attività di pittore. Trascorse l’ultima parte della sua vita in Inghilterra, senza fare più ritorno in Germania. Morì a Londra nel 1985. Fred Uhlman non era uno scrittore di professione e, tra i pochi esperimenti letterari da lui lasciati, solo “L’amico ritrovato” era destinato in modo esplicito alla pubblicazione. Fu, comunque, l’autore di altri due “racconti lunghi”, sostanzialmente autobiografici, e nei quali torna a riflettere sulla sua esperienza di persecuzione e di sradicamento. Anch’essi sono stati recentemente tradotti in Italia con il titolo, rispettivamente, di “Un’anima non vile” e “Niente resurrezioni, per favore”. Il vero e proprio “capolavoro minore” di Uhlman, secondo la nota definizione dello scrittore austro-ungherese Arthur Koestler, resta tuttavia proprio la novella “L’amico ritrovato”, di cui si raccomanda ancora una volta la lettura. P.S. Questa recensione fu preparata per il mensile d’informazione del Quartiere San Rocco di Monza “Sottopasso”, di cui uscì solo il primo numero nel luglio 1991, anno 1, n.° 0, in attesa di autorizzazione, per la rubrica “Il piacere della lettura”. Non fu mai pubblicata. Il mensile, direttore responsabile Salvatore Pendolino, e della cui redazione facevano parte Giorgio Biffi, Elvio Bramati, Alberto Fontana, Adelfio Moretti, Ennio Ripamonti, Antonella Tarsi, oltre al sottoscritto, nacque “autonomo, indipendente, utile, locale, progressista” e soprattutto “povero” ma fu “stroncato” sul nascere.

martedì 16 gennaio 2018

Il "Lessico famigliare" di Patrizia Bove.

Patrizia Bove, Se bastasse un momento di gioia, Telese Terme (Bn), Edizioni2000diciassette, 2017. “S. Salvatore, 20 ottobre 1943 …Da quando Badoglio ha firmato l’armistizio non c’è più pace neanche a San Salvatore, che prima era un paese tranquillo e lontano dalla guerra “vera”. Già dallo scorso mese di agosto, infatti, le truppe tedesche hanno occupato il paese, requisito edifici pubblici e presidiato il municipio cittadino. La loro presenza in paese è invadente e autoritaria, seppur mascherata da una parvenza di normalità. Fanno passare il messaggio di essere in paese per proteggere la zona dagli attacchi degli anglo-americani, ma in realtà devono mantenere le loro posizioni perché la zona è un luogo strategico. Noi tutti lo sappiamo e li temiamo. E aspettiamo il peggio. A noi sfollati l’arrivo dei tedeschi in paese è sembrata una persecuzione. Siamo scappati da Napoli pensando di trovare la pace in questo paese lontano e invece ci ritroviamo a fare i conti con la parte più feroce del conflitto, quella che vede contrapporsi i nostri vecchi alleati, oggi nostri nemici, con i nemici di ieri, oggi nostri alleati ed amici. Un paradosso difficile da comprendere, semmai fosse possibile dare un senso a questa follia collettiva che è la guerra. È stato così che lo scorso 9 ottobre i tedeschi, a seguito di un’operazione di sabotaggio compiuta da sconosciuti, hanno rastrellato le case e prelevato tutti gli uomini dai 15 ai 60 anni che non si erano presentati al comando tedesco, come era stato ordinato. I militari erano convinti che il sabotaggio fosse opera di uomini del posto e intendevano punire i colpevoli o, in loro mancanza, deportare tutta la popolazione maschile. Come hanno puntualmente fatto. La scena che quel pomeriggio si è presentata ai nostri occhi era terrificante: tanti gli uomini del paese costretti dai tedeschi a salire sui camion per essere condotti chissà dove… S. Salvatore, 25 dicembre 1943 Oggi è sabato 25 dicembre 1943 e questo è il quarto Natale di guerra. Il conflitto continua, i tedeschi arretrano e gli Alleati anglo-americani conquistano posizioni determinanti per l’esito della guerra. Il paese sta tornando alla normalità, dopo i fatti del 9 ottobre scorso. Circa quattro giorni dopo la deportazione, infatti, mio padre e gli altri uomini prelevati dai nazisti sono tornati a casa sani e salvi. La loro liberazione è stata possibile grazie allo sbandamento dell’esercito tedesco, incalzato dagli alleati nella battaglia del Volturno. Grande è stata la gioia di tutti, anche se la popolazione ha pianto la terribile morte di quattro ragazzi fucilati dai militari in fuga, in una chiesa nei pressi del paese”. Uno dei “quattro ragazzi fucilati… in una chiesa nei pressi del paese” era proprio mio zio Aldo Pezzato. Così, Patrizia Bove, nel suo primo romanzo, una sorta di “lessico famigliare”, sospeso tra memorie di vita ed eventi storici realmente accaduti, ne ricorda brevemente il rastrellamento e la breve deportazione e, infine, la “terribile morte” ad opera dei nazisti. Un romanzo biografico e un affresco di vita familiare, quello della Bove, nelle cui pagine, attraverso la figura della giovane protagonista Tina, sua madre, e grazie ai “preziosi documenti” conservati nella sua “scatola azzurra” dei ricordi, sono narrate le vicende della propria famiglia che, da Napoli – devastata dai bombardamenti - si rifugia nel cuore del Sannio e, precisamente a San Salvatore Telesino, per sfuggire alla guerra. Un destino e una storia comune a quella “di tanti uomini e donne che hanno vissuto il fascismo e la guerra” e, per molti versi, simile a quella vissuta anche da mia nonna Carmela e da mia madre Elena, con sua sorella Maria e i fratelli Aldo e Gino, anche loro sfollati da Napoli per sfuggire alle bombe ma che, in quel paese tranquillo e apparentemente lontano dalla barbarie della guerra, incontrarono, invece, un terribile e tragico destino che ha inesorabilmente segnato per sempre la loro vita. Il titolo del libro è ispirato a una poesia di Emily Dickinson e a tutti quegli “attimi di gioia”, che, simili a “istanti di cielo…come vengono, vanno” lasciando “l’anima abbagliata nelle sue stanze vuote”. Perché, poi, come scrive Patrizia Bove nell’ultima pagina del suo intenso e coinvolgente romanzo, “Tutto passa. Il tempo sbiadisce l’oro dei capelli e la lucentezza degli sguardi; le fotografie ingialliscono e le catene dorate si spezzano. Nessuno resta indenne al suo passaggio. Il Tempo consuma tutto. Tranne l’amore.”

sabato 15 agosto 2015

Mio zio Aldo, mia nonna Carmela ed io: una pagina di diario della metà degli anni ‘90

Mio zio Aldo non l’ho mai conosciuto di persona. Era nato a Napoli il 25 agosto 1925 e morto a Faicchio il 14 o 15 ottobre 1943, trucidato ferocemente dai soldati tedeschi in ritirata, insieme ad alcuni compagni di sventura, tutti ritrovati crivellati di colpi, nella piccola cappella campestre di San Francesco a Faicchio, forse soltanto a poche ore e ad appena qualche centinaia di metri dalla Salvezza. Quando nacqui io, il 4 luglio 1957, insieme ai nomi dei miei due nonni Leone (materno) ed Eduardo (paterno), mia madre e mio padre scelsero, però, di darmi il suo come primo nome. Ancora oggi, perciò, mi chiamo e mi chiamano Aldo e di mio zio conservo tuttora vivissimo il ricordo, in larga parte tramandatomi – nonostante tutto - proprio da mia nonna Carmela Coppola in Pezzato. Mi piaceva moltissimo ascoltare dalla sua viva voce, quando ero ancora soltanto un ragazzino, i suoi racconti sull’ultima grande guerra mondiale. Mi affascinava sentirla parlare di quel mondo e di quelle storie così grandi e terribili e che lei aveva vissuto in prima persona. Dei bombardamenti sulla città di Napoli, degli allarmi aerei notturni, delle corse affannose e angosciose nei rifugi sotterranei e della scelta, infine, di rifugiarsi a San Salvatore Telesino, insieme a tante altre famiglie napoletane, sfollate nell’entroterra beneventano per sfuggire alle bombe. E del mio nonno materno e suo marito Leone, morto pochi giorni prima di mio zio Aldo e della forza d’animo, del coraggio e della fatica con cui lei, oramai vedova e sola, lavorando come sarta, aveva poi portato avanti tutta la sua famiglia con i quattro figli rimasti: Antonio, Luigi o zio Gigi, Maria ed Elena, la più piccola, mia madre. Mi commuovevo quando la sentivo cantare “Vecchio scarpone” o “Lazzarella” con quella sua voce ancora limpida e squillante nonostante l’età o raccontare, con una voce strozzata dal pianto soffocato e dalla tristezza dei ricordi, delle bucce dei piselli o delle patate che erano tutti costretti a mangiare in mancanza di meglio. Mi piaceva sentirla parlare di quella grande e bella casa con terrazzo e giardino pieno di piante e di fiori, palazzo di proprietà di Mario Herb e del suo stabilimento di orticoltura, presso il quale lavorava e viveva mio nonno con tutta la famiglia, in via Trivio, a pochi passi da piazza Carlo III a Napoli, ed in cui anch’io ero nato e poi, dopo il terremoto del ’62 e l’abbattimento del palazzo, della necessità di lasciarla per trasferirsi all’Arenella, in via Pietro Castellino, 91. Di mio zio e di suo figlio Aldo, tuttavia, non parlava quasi mai con prontezza, né con dovizia di particolari e dettagli. Io la tempestavo di domande, di richieste di spiegazioni, di perché e di per come, la sollecitavo a darmi notizie più precise…ma senza molto successo. Ricordo ancora distintamente la sua reazione abituale: “Ah” – sospirava – “povero Alduccio! Tanto, troppo tempo è passato…A che serve parlarne ancora?”. Erano i primi anni settanta e, a distanza di ormai circa 30 anni da quei tragici e drammatici eventi di quel maledetto 0ttobre del 1943, le riusciva ancora così difficile, insopportabile, doloroso quasi intollerabile rievocarne la memoria. Io riuscivo a comprendere lo strazio che aveva provato da madre e che ancora provava e tuttavia, un po’ sadicamente, insistevo, ma riuscivo a strapparle solo qualche accenno, qualche vago ricordo e qualche sofferta e laconica frase, ma poco di più. Solo pochi, scarni dati biografici, qualche foto, un santino e quella lettera con quell’auspicio non realizzatosi e quella promessa non mantenuta: “Carissima Mamma, ti ringrazio per le 200 lire che mi erano di bisogno. Mi fa piacere sapervi tutti bene come ti assicuro di noi lo stesso…Ci rivedremo presto e saremo felici. Ti abbraccio e bacio insieme a Maria, Gino ed Elena. Aldo Pezzato”. Tutto qui? Possibile che non si potesse sapere altro? Chi era Aldo Pezzato, mio zio? Come si erano davvero svolti quei tragici fatti? Per molti anni queste domande mi hanno spesso tormentato e hanno alimentato nel tempo, rendendo
quasi insaziabile proprio perché mai del tutto saziata, la mia curiosità. Forse solo ora, a distanza di circa vent’anni dalla morte di mia nonna a Formia nel luglio del 1975, solo ora – dicevo – mi rendo pienamente conto di come anche il suo esempio di vita e tutti i suoi racconti abbiano segnato la mia infanzia e adolescenza, comunque, notevolmente contribuendo a formare il mio carattere e la mia personalità. Aldo Maiorano, 1995