domenica 25 aprile 2010

Un luogo, un tempo, un libro: Faicchio, 1943, "L'ultima notte di Bedò".

Si tratta dell’ultima opera e del primo bellissimo racconto di Emilio Bove, dal titolo alquanto suggestivo “L’ultima notte di Bedò”, Benevento, Vereja Edizioni, 2008. Nato a Napoli il 12 settembre 1954 e laureato in Medicina e Chirurgia, Emilio Bove svolge attualmente l’attività di medico di famiglia a San Salvatore Telesino, un piccolo paese dell’entroterra campano in provincia di Benevento. Giornalista e scrittore, nonché collaboratore di varie riviste storiche, è la prima volta che l’autore si cimenta con un testo narrativo romanzato. L’esito è, tuttavia, felicissimo. Nel suo libro egli rievoca il luogo e il tempo della tragica vicenda di quattro sfortunati ragazzi, deportati dai soldati tedeschi, nell’ormai lontano autunno del 1943, in un paese del Sannio. Si tratta non solo di un romanzo ma di una “storia vera”, realmente accaduta, con “pochi e marginali elementi concessi alla fantasia”, con nomi di persone e luoghi originali, “specchio fedele” di una vicenda storica, per molto tempo dimenticata e negletta. Eroe e protagonista della storia, 144 pagine dense e avvincenti come un romanzo ma con riferimenti a fatti, persone o cose assolutamente non casuali e fedeli alla cronaca di quei giorni e di quegli eventi dell’autunno del 1943 e “che ci trascina dentro l’orrore della guerra vista dalla parte di coloro che la subiscono”, è Bedò (Benedetto Bove), un ragazzo di 19 anni. Insieme a lui, a condividere il suo tragico destino, i suoi compagni di sventura Francesco Dusmet De Smours, di anni 18, Di Leva Rosario, di anni 16, e Pezzato Aldo, di anni 18, mio zio materno.
Tutti e quattro i ragazzi, tra i quali anche l’unico figlio dell’apprezzato musicista napoletano Enrico De Leva, “autore di romanze ed opere liriche, ma diventato famoso e popolare per aver musicato la canzone “’E spingule frangese” scritta “in collaborazione” col famoso poeta e scrittore napoletano Salvatore Di Giacomo, furono trucidati e massacrati, in modo inumano e feroce, dai nazifascisti. I loro cadaveri, crivellati “dai proiettili di un’arma automatica”, furono rinvenuti il 18 ottobre 1943, quattro giorni dopo il massacro, probabilmente avvenuto nella notte tra il 13 ed il 14 ottobre 1943, nella piccola chiesa di San Francesco in contrada Odi a Faicchio. Anche questo eccidio rimase ed è rimasto tuttora impunito. C’è solo una lapide, posta sulla facciata della chiesetta in ricordo del loro sacrificio. E, sulla lapide, c’è scritto: “IL LORO ASSASSINIO INUMANO E FEROCE ACCRESCA IN NOI L’ORRORE DELLA GUERRA e ALIMENTI LA FIAMMA DELLA LIBERTÀ E DELL’AMORE. MENEO FERDINANDO DA FAICCHIO DI ANNI 67, BOVE BENEDETTO DA SAN SALVATORE TELESINO DI ANNI 19, DUSMET DE SMOURS FRANCESCO DA NAPOLI DI ANNI 18, PEZZATO ALDO DA NAPOLI DI ANNI 18, DE LEVA ROSARIO DA NAPOLI DI ANNI 16. TRUCIDATI IN QUESTA CAPPELLA DI SAN FRANCESCO IN FAICCHIO IL 15 – 10 – 1943”.
Grazie a Emilio Bove ora c’è anche il racconto, coinvolgente e commovente, della loro tragica vicenda, corredato da un ricco e documentato dossier di circa 80 pagine, con documenti storici e d’archivio, immagini fotografiche, testimonianze che hanno ispirato direttamente il romanzo stesso. Il libro ha riscosso un notevole successo, è stato premiato ed è alla sua seconda edizione. Presentato ufficialmente al pubblico l’8 Novembre 2008 presso l’Abbazia Benedettina del Santo Salvatore a San Salvatore Telesino (BN), dal libro di Emilio Bove è stata tratta anche una performance teatrale (dialoghi, narrazioni, immagini, scene filmiche, danze e musiche), per la regia di Mariella De Libero, dell’Associazione Culturale Libero Teatro, messa in scena il 5 Agosto 2009 nel Cortile dell’Ex Municipio di San Salvatore Telesino, con oltre quaranta artisti tra attori e ballerini e un notevole successo di pubblico.
Qualche anno prima, sia pure con il limitatissimo materiale documentario a mia disposizione, avevo provato io stesso a sottrarre questa storia all’oblio, scrivendo un breve articolo pubblicato da “L’Unità”, nell’Aprile del 2005, in occasione del 60° anniversario della Festa della Liberazione. In esso cercavo di ricostruire la storia di mio zio Pezzato Aldo, figlio di Leone Pezzato e Coppola Carmela, nato il 20 Agosto 1925 a Napoli, di anni 18. Non ho mai avuto la gioia di conoscerlo di persona, ma di lui porto il nome e custodisco la memoria, tramandatami da mia nonna. Ecco l’articolo.
Mio zio Aldo per liberarsi trovò la morte
Aldo Maiorano
Cara Unità, nella mappa delle stragi naziste, compiute in Italia tra il 1943 e il 1945, c´è un luogo sicuramente poco noto: si chiama Faicchio. Qui, a circa 5 km da San Salvatore Telesino, in provincia di Benevento, si compì un eccidio ad opera dei nazifascisti, forse un eccidio minore, dimenticato, ma non meno crudele ed efferato. Nella piccola Cappella di San Francesco, ai margini del paese, fu ritrovato il corpo di mio zio Aldo Pezzato, trucidato, poco più che diciottenne, insieme a tre suoi compagni di sventura. Era il 14 Ottobre 1943. Io sono nato 14 anni dopo. Di quello zio, che non ho mai potuto conoscere, porto il nome e conservo il ricordo, in larga parte tramandatomi da sua madre e mia nonna materna. Ho deciso di raccontare questo lontano episodio, dopo una lettera inviata ad "Avvenimenti" nel 1997 che non ho mai saputo che fine abbia fatto, solo oggi, nel sessantesimo anniversario della Festa della Liberazione. Mi sembra un episodio degno di essere segnalato a chi lo ignora o ricordato a chi, nel frattempo, l'ha dimenticato.
Nell'ottobre del 1943, di fronte all'offensiva anglo-americana, l'esercito tedesco batteva in ritirata dal Sud verso il Nord. Era già stato firmato l'armistizio dell'8 Settembre e gran parte del territorio italiano, da Napoli alle Alpi, cadde sotto l´occupazione nazista. Essa fu alquanto dura e feroce, anche per il particolare spirito vendicativo che connotò la condotta tedesca contro la popolazione italiana, ex-alleata in guerra. L'ordine impartito da Keitel il 17 settembre del 1943 disponeva "il trasferimento coatto della popolazione maschile", trascinata verso Nord per essere utilizzata come manodopera per il fabbisogno tedesco, con inflessibile uso della violenza ad ogni minima resistenza. Anche la sorte di mio zio e dei suoi compagni fu segnata da questa decisione. Il 9 Ottobre 1943 egli fu preso in ostaggio con altri 127 uomini rastrellati a San Salvatore Telesino e tutti furono trasportati a Piedimonte d'Alife, dove furono rinchiusi, per qualche giorno, nel carcere locale. Probabilmente da lì mio zio scrisse ai suoi genitori - i miei nonni materni - l'ultima lettera della sua vita, datata 11 Ottobre 1943, in cui li pregava di non stare in pensiero «perché, per il momento, stiamo tutti bene» e si accomiatava da loro con queste parole «Ci rivedremo presto e saremo felici». I 128 uomini riuscirono a fuggire in qualche modo dal carcere di Piedimonte d'Alife e fecero marcia indietro, inseguiti dai tedeschi, verso San Salvatore Telesino, attraverso la via delle montagne circostanti. Tutti tornarono a casa, tranne i quattro che avevano tentato la fuga – com'è stato successivamente ricostruito – per una via più breve e veloce. Mancarono per sempre all'appello: mio zio Aldo Pezzato, Rosario de Leva (unico figlio del musicista napoletano Enrico de Leva), Franco Dusmet e Benedetto Bove. I loro corpi, ammucchiati l'uno sull'altro, furono trovati nella piccola cappella di San Francesco, nei pressi di Faicchio, dove si erano rifugiati e dove i fucili tedeschi li trucidarono a morte senza pietà. Era il 14 Ottobre 1943. Né a mio zio né ai suoi compagni fu concesso di rivedere i propri cari. Mio zio era nato il 25 Agosto 1925. Era iscritto all'Azione Cattolica. Non fu un partigiano, né un martire consapevole della Resistenza, ma, anche lui, come tanti innocenti, pagò con il sacrificio della propria vita il prezzo più alto alla violenza e alla barbarie che il nazifascismo aveva scatenato in Italia e in Europa in quegli anni.
Pubblicato il: 21.04.05
Modificato il: 21.04.05 alle ore 19.12
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Nel frattempo, dopo la morte di mia madre, sono venuto a conoscenza di un altro documento, che a me pare particolarmente significativo e di cui prima ignoravo l’esistenza. Si tratta del riconoscimento della qualifica di partigiano, conferita a mio zio Aldo Pezzato, caduto per la Lotta di Liberazione … in Faicchio, dalla Commissione presieduta da Antonino Tarsia e firmata dal Dott. Pietro Amendola, Segretario Provinciale dell’ANPI di Napoli (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) in data 18 Aprile 1947.



Ho scritto queste brevi note non solo per recensire l’ultima opera di Emilio Bove ma anche perché questa tragedia, rimasta impunita ed archiviata per tutto questo tempo, sia, almeno, più conosciuta e nota a tutti, in specie a tutti coloro che non vogliono né ricordare, né sapere. Perché è solo dalla maturazione di una coscienza critica del passato, senza alcuno spirito di vendetta, che questo paese, che rischia di essere senza più memoria e senza più radici, può sperare ancora per avere un futuro migliore e più giusto.

Aldo Maiorano

mercoledì 21 aprile 2010

Un luogo, un tempo: Niccioleta, 1944

Il libro è “Un luogo, un tempo” di Bruno Travaglini, Firenze, Il Ponte Editore, 2003. Mi è stato suggerito da una mia ex-alunna, Consuelo Santi, giovanissima adolescente. C’è ancora speranza, se questo accade. Se accade, cioè, almeno talvolta, che sia un’alunna a consigliare al suo professore un buon libro e non solo viceversa.
L’autore, minatore nella miniera di mercurio di Abbadia San Salvatore dal 1951 al 1959 e licenziato, dopo una lunga lotta sindacale, insieme ad altri 80 colleghi di lavoro, successivamente impiegato presso la Segreteria Generale del Comune di Siena, ha spesso incontrato in questi ultimi anni, per presentare il suo libro, gli studenti delle scuole, in alcune delle quali esso è stato anche adottato come lettura guidata di narrativa.
Nel suo libro, giustamente definito da Pietro Scoppola nella prefazione, “bello, avvincente, scritto con grande semplicità ed eleganza, spontaneo ed efficace nel ricostruire ambienti e figure”, Bruno Travaglini rievoca con commossa partecipazione un luogo e un tempo. Il luogo è quello di Niccioleta, un villaggio minerario in provincia di Grosseto, nelle Colline Metallifere, a poca distanza da Massa Marittima, nato e sviluppatosi per volontà della Montecatini, a partire dagli anni ’30, intorno ad una miniera di pirite, dove il protagonista è cresciuto e vissuto felicemente “nel decennio precedente la seconda guerra mondiale” e che fu costretto ad abbandonare “drammaticamente alle soglie dell’adolescenza…quando la tragedia della guerra travolse la nostra comunità”.
Il tempo, il “tempo dominante”, è quello delle “poche ore di una feroce strage compiuta dai nazisti il 14 giugno del 1944”, forse “uno degli eventi più drammatici e violenti dell'occupazione nazifascista della Maremma” e “la prima strage operaia della guerra di liberazione”.
A quel luogo e a quel tempo sono stati, non a caso, dedicati diversi altri libri. Oltre ai contributi di Emilio Zannerini, “Il massacro della Niccioleta”, edito a cura della Federazione Provinciale Sindacato Minatori ed esplicitamente citato da Bruno Travaglini nel suo libro e di Carlo Cassola, “La strage di Niccioleta”, ricordiamo, tra gli altri: "La memoria di Niccioleta" a cura di Lucio Niccolai, Marzio Mambrini e Mario Papalini, Effigi, 2003; "Femminile in nero. Niccioleta, giugno 1944" di Massimo Sozzi; "Un coro di voci sole" di Katia Taddei; nonché gli studi e le ricerche storiche di Michele Battini e Paolo Pezzino, culminate nel libro di quest’ultimo, “Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta”, Bologna, Il Mulino, 2001 .Un vero e proprio “coro di voci diverse”, tra ricostruzioni storiche, ricordi e riflessioni, al tempo stesso.
Diluito – come scrive ancora Pietro Scoppola – nel “tempo lungo” dei “ricordi e della memoria di un bambino, testimone di quella strage e autore del volume”, il libro racconta in modo vivido e coinvolgente “la storia di Bruno, della sua famiglia, del suo villaggio, dei suoi abitanti e soprattutto dei minatori che ci hanno vissuto, lavorato e che hanno pagato con la vita il generoso e ingenuo tentativo di difendere la loro miniera dai nazifascisti in fuga”. Da allora sono trascorsi, oramai, oltre 65 anni e il mondo è profondamente cambiato e, insieme al mondo, anche il paesino di Niccioleta, anche se Bruno Travaglini non sembra riconoscerlo del tutto, se egli scrive:”…solo il nostro villaggio è rimasto tale e quale: Niccioleta è sempre la solita, è lì, ogni anno più vecchia e scolorita, ma sempre la stessa…solo la scuola non c’è più, l’hanno trasformata in appartamenti perché ormai ci sono pochi bambini in età scolare. Non come ai tempi nostri che eravamo una marea”.
Dedicato dall’autore ai suoi nipoti, il libro si chiude con l’elenco dei cognomi e nomi delle vittime della strage, tra le quali il padre dell’autore, Marsilio Travaglini, commovente omaggio alla loro memoria. “Di loro e della loro morte” – scrive l’autore, con amarezza e angoscia insieme, nell’ultimo breve capitolo del libro – “non si ricorda più nessuno, non hanno imparato niente, non vogliono sapere niente. Solo i vostri figli…e altri cento, duecento vi ricordano, gli altri no! Non vogliono ricordare, non vogliono sapere…Scriverò i vostri nomi e, per un istante, ritornerete nella mia memoria e nel mio cuore”.
L’indubbio valore e merito del libro sono tutti qui, e non è certamente poco, anzi è moltissimo!. Non solo nel bisogno intimo e personale di restituire voce, occhi, corpo e vita ad un’intera piccola comunità e alla propria infanzia, sottraendole in tal modo – grazie al potere evocativo della parola – all’oblio inesorabile del tempo; ma anche nella “necessità di sollevare la cappa di colpevole silenzio, stesa dagli uomini su una vicenda che ha tutti i connotati di un delitto contro l’umanità…per far rivivere quel crimine…e per non lasciare solo alle lapidi e ai monumenti…il ricordo delle sofferenze patite da un’intera comunità”.
“Non è un libro di storia”, il libro di Bruno Travaglini, come è stato giustamente affermato da Pietro Scoppola. Piuttosto di “memorialistica”, ma un libro che, comunque, “alla storia porta un contributo originale, di grande interesse”, “un esempio concreto e significativo di cosa il ricordo e la memoria dei protagonisti possono portare alla conoscenza storica”. Pietro Scoppola conclude la sua bella prefazione, così scrivendo: Bruno Travaglini “sente con amarezza e quasi con angoscia il rischio dell’oblio; intuisce che il vero superamento di quelle barbarie di cui è stato testimone da bambino è solo nella memoria, nella coscienza critica del passato. In realtà, al di là dell’amarezza e dell’angoscia, a questa memoria e a questa coscienza critica il suo libro porta un sofferto contributo.”
Un libro da leggere, insomma, anche per aiutarci a non dimenticare le atrocità della guerra, in cui il fascismo trascinò il nostro paese, e per ricordare in modo degno, con un 25 aprile di festa, la Festa del 25 Aprile, nel 65° anniversario della Liberazione dell’Italia dal fascismo.

giovedì 15 aprile 2010

Meno male che…Roberto c’è!

“Perché il male trionfi, basta che gli uomini del bene non facciano niente”.
“Insomma, è giunto il tempo che smettiamo di essere una Gomorra”. (Don Peppe Diana, “Per amore del mio popolo non taccio”).
(da Roberto Saviano, “La parola contro la camorra”, Torino, Einaudi, 2010).

“Mi sento umile, quasi insignificante, di fronte alla dignità e al valore dello scrittore e giornalista Roberto Saviano, maestro di vita”.
( Josè Saramago, “Il quaderno”, Torino, Bollati Boringhieri, 2009).


“La parola contro la camorra” è il terzo libro di Roberto Saviano, dopo “Gomorra” e “La bellezza e l’inferno”, gli ultimi due entrambi pubblicati da Mondadori.
Tutti e tre, libri bellissimi; tutti e tre, da leggere e rileggere. Saviano ha il dono raro ed aureo, nella scrittura come nella presenza in video, del narratore e del cantastorie di genio: quell’insostenibile e avvincente leggerezza delle parole che possiede, però, un “peso”, uno spessore e un valore inestimabili.
Di “Gomorra”, sconvolgente ed inquietante “viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra” e “dei clan del napoletano e del casertano, da Secondigliano a Casal di Principe”, best seller di successo con oltre tre milioni di copie vendute in tutto il mondo, più volte premiato e tradotto in decine di lingue e paesi, da cui è stato tratto uno spettacolo teatrale e un film altrettanto famoso e premiato, è stato, ormai, detto tutto e di più. Da allora, cioè dal 2006, Roberto Saviano vive sotto scorta per le minacce di morte ricevute. Il secondo libro “La bellezza e l’inferno” è, forse, ancora più bello; un atto di fede e fiducia nella scrittura, quale “possibilità di esistere” e antidoto contro la rassegnazione e la disperazione, e nella libertà e nella bellezza contro “l’inferno che sembra continuamente prevalere”. Da questo libro, che raccoglie e rielabora sostanzialmente gli scritti pubblicati dal 2004 al 2009 su diversi giornali e in diverse occasioni, Roberto Saviano ha tratto quel piccolo e autentico capolavoro di narrazione sulla storia di Lionel Messi, “il più piccolo campione di calcio vivente”, messo in scena domenica 11 aprile 2009 a “Che tempo che fa”.
Il suo terzo libro, che si avvale dei contributi e degli scritti introduttivi di Walter Siti, Aldo Grasso, Paolo Fabbri e Benedetta Tobagi, si compone di due parti. La prima parte, intitolata “Una luce costante”, è la trascrizione di un video registrato a Roma il 30 ottobre 2009 presso la sede dell’Editore Mondadori, un inedito assoluto. La parte seconda, intitolata “Così parla la mia terra”, è – in realtà – il racconto della puntata speciale di “Che tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio e andata in onda il 25 marzo 2009, in una sorta di “monologo-intervista”. Dedicata all’analisi del rapporto tra “il linguaggio dell’informazione” dei giornali locali delle province di Napoli e Caserta e le organizzazioni criminali, essa è, altresì, corredata di immagini e fotografie in aggiunta al testo, alcune delle quali mostrate e commentate nello speciale televisivo.
Allegato al libro, circa un centinaio di pagine assolutamente imperdibili, è un Dvd di 120 minuti che contiene sia il video romano di ottobre, una bellissima “orazione civile” dal significativo titolo “La parola contro la camorra”, sia la puntata speciale della trasmissione televisiva in onda su RAI 3 del marzo 2009. Filo conduttore di entrambi e del loro “spirito unico” è il potere della parola, potremmo dire sia di quella scritta, sia di quella parlata, contro l’infelicità della camorra e della criminalità organizzata. Sia il libro, sia il video sono, infatti, la prova che - quando non usurata, narcotizzata e umiliata dalla comunicazione inautentica, priva della forza morale dell’esempio e della testimonianza - sia la parola letteraria, sia quella televisiva sono ancora capaci di trasmettere verità, “vita” ed “autorevolezza”.
Come ha sottolineato Walter Siti nel primo degli scritti introduttivi al libro, solo “l’ultimo Pasolini” era stato in grado di fare e osare altrettanto. E non a caso, essendo egli stato forse l’ultimo dei grandi poeti, scrittori ed intellettuali “civili” del nostro secondo Novecento. Ma, allora, perché Saviano racconta e scrive libri e appare in televisione?
Scriveva Pier Paolo Pasolini nelle “Lettere luterane”, rivolgendosi al suo immaginario Gennariello napoletano: “Il mondo è dei bravi, e i cojoni se lo godono. È una delle più grandi verità che le mie orecchie abbiano mai ascoltato…Lascia che i cojoni si godano il mondo, e invidia pure come me, struggentemente, per tutta la vita, la loro felicità”. Esortava poi Gennariello a non cadere nella trappola “del potere dei consumi” col risultato di inseguire una felicità “tutta completamente falsa: mentre si diffonde sempre di più una immediata infelicità” e concludeva: “Sappi, invece, Gennariello, che, contrariamente al proverbio sublime di Chia, c’è anche una felicità dei bravi. Il proverbio di Chia dice infatti che il mondo è dei bravi, alludendo decisamente al possesso, al potere. Ma allora va aggiunto che oltre al possesso del mondo da parte dei padroni, c’è anche un possesso del mondo da parte degli intellettuali, e questo è un possesso reale: com’è del resto quello dei cojoni. Si tratta soltanto di un diverso piano culturale. È il possesso culturale del mondo che dà felicità”.
Perché, allora, Saviano scrive e racconta anche a rischio della sua stessa vita? Forse, la risposta è proprio in quelle parole di Pasolini, perché il sogno di Saviano e la sua felicità sono fatte proprio di questo “possesso culturale”. Non a caso, mi sembra, Roberto Saviano, nella sua più recente apparizione in tv, ha indicato a modelli quelli che ancora si ostinano a fare il difficile mestiere di insegnante, scrittore e giornalista sforzandosi di pensare, capire e ragionare, di insegnare a pensare, a capire e a ragionare, di far pensare, far capire e far ragionare. Spesso, "in direzione ostinata e contraria".
Sì, si può essere felici, pienamente felici, anche così.
Contro la “cattiveria” e il “neo-cinismo”, rassegnato ma infelice, sempre più dilaganti, “ il sogno è che magari queste mie parole, condividendole, possano davvero diventare uno strumento. Non soltanto per affermarmi,” – scrive, infatti, Saviano – “ma anche per vivere meglio, per essere più felice e per permettere a chi mi circonda di essere più felice”.
Meno male che…Roberto c’è.
Non posso fare a meno di ringraziarlo e di sentirmi anch’io umile e quasi insignificante, come Saramago, per ciò che fa e per come lo fa e di augurargli, tuttavia, nonostante tutto, nonostante la sua terribile vita blindata, quello che Pasolini stesso augurava a Gennariello: “Sii allegro”.
Roberto Saviano, sii allegro!
E che i tuoi lettori e il tuo pubblico, contribuendo a diffondere le tue parole, possano proteggere te e i tuoi libri!

lunedì 12 aprile 2010

Luciano Bianciardi e ...le origini degli Etruschi

Mercoledì 7 aprile 2010, presso il Museo di Storia Naturale della Maremma a Grosseto si è svolta la seconda conferenza, organizzata dal Progetto Archeologico Alberese e dall’Associazione Culturale “Il Futuro della Maremma”, sul tema “Il periodo etrusco: Vetulonia, Roselle e la valle dell’Albegna”. Conferenza interessante e iniziativa sicuramente meritoria, coronate da un discreto afflusso di pubblico. Al termine della relazione, ennesima discussione sulle origini misteriose e contrastate degli etruschi. Mi sono prepotentemente ritornate alla memoria le parole che Luciano Bianciardi scriveva ne “Il lavoro culturale”, sorta di ricostruzione delle “tappe di formazione di un intellettuale di provincia tra l’immediato dopoguerra e gli anni cinquanta”, tra “il pamphlet e il saggio di costume” e, in particolare, le pagine da lui dedicate al “problema delle origini” che “ha sempre sedotto e affaticato la mente di saggi, sapienti e intellettuali: origini dell’uomo, delle specie, della società; origini del male e della disuguaglianza”. E le pagine da lui dedicate al problema delle origini di Grosseto, “piccola città, ma civile e progredita”, su questo punto divisa, tra i suoi “sapienti, dotti e intellettuali” tra le opposte fazioni degli eruditi medievalisti e degli archeologi. I primi facevano risalire le origini della città all’editto di papa Innocenzo II dell’anno 1138, in cui si riconosceva a Grosseto “il rango di diocesi” ; i secondi, invece, alle origini ancor più antiche e illustri della civiltà degli etruschi, “…che vi si erano stanziati, attratti dalla salubrità dell’aria, dalla ricchezza dei boschi – ottimo rifornimento di materia prima per i loro grandi arsenali navali – dalla fecondità dei campi”. Ma, “Gli etruschi, come tutti sanno,” – scriveva Bianciardi – “sono un popolo misterioso, venuto forse dalle coste dell’Asia Minore, o forse, via terra, dal continente europeo, ma fors’anche autoctoni, indigeni. In ogni caso erano civili e potenti prima ancora che sorgesse Roma, tanto che alla capitale avevano dato per secoli filo da torcere, ed anzi, ne erano stati a lungo dominatori. La tradizione infatti vuole che ben due re di Roma portassero il nome di Tarquinio, che è la latinizzazione di un nome etrusco. Esplicita allusione, insomma, a un governo etrusco sulla città eterna”.
...“Ce ne son anche certi che hanno sostenuto, in questi ultimi anni, l’affinità degli etruschi con i pellerossa d’America; certi riti e certe figurazioni religiose che credevamo tipiche degli etruschi si son ritrovate fra gli Irochesi del New England, fra i Sioux e persino i Mescaleros.”
“Infine” – concludeva Bianciardi – “c’eravamo noi, i giovani, la generazione bruciata”, in polemica sia “coi medievalisti eruditi e con gli archeologi”, “decisi a rompere con le tradizioni” e “con questa mitologia delle origini antichissime”.
“Gli etruschi? Ma gli etruschi non sono mai esistiti. Voi vi chiedete da dove sono venuti, se dal continente, o dall’Asia Minore, o dall’America; avanzate anche l’ipotesi che siano sempre stati qui. Ebbene, avete tutti ragione e tutti torto, cioè vi ponete un problema che non ha senso. Avrebbe senso chiedersi da dove sono venuti i piemontesi, o i toscani, o i milanesi? Non esistono popoli che, tutti d’accordo, un bel giorno prendono il mare (dove trovano tante navi, oltre tutto?) e se ne vanno altrove.
Da dove vengono i milanesi? E chi lo sa? Molti da fuori: qualcuno è venuto su perché a casa sua non trovava lavoro, qualche altro venne, da giovane, a farci il militare, e poi ha preso moglie e non si è mosso più. Altri ci sono nati e ci stanno e ci lavorano: magari vorrebbero andarsene, a Capri, o in Brasile o in Australia, ma non possono perché non hanno soldi per il viaggio, né speranza di poter campare, lontani dalla loro città. Se vi dicessero che i milanesi vengono dalla Dalmazia, cosa fareste voi? Direste certamente che è un’ipotesi sballata, no? E allora perché credere a chi sostiene che gli etruschi vennero dall’Asia minore?
Gli etruschi erano appunto come i milanesi; erano quelli che abitavano in questa zona, e da altre parti, molto tempo fa e venivano chiamati, dagli altri, dai loro vicini, con questo nome. Da dove son venuti? Chi lo sa? Da dove gli era parso giusto venire. Ma l’alfabeto, la lingua, questa lingua misteriosa e indecifrabile? Macchè indecifrabile, rispondevamo noi. A che serve cercar di decifrare la cosiddetta lingua etrusca, se il frammento più lungo è di cinquecento parole in tutto?
O forse, aggiungevamo, se proprio vi preme di salvare in un qualsiasi modo i vostri etruschi, ebbene, allora vi diciamo che gli etruschi esistevano, ma non erano un popolo: erano una minoranza che governava la nostra terra, e teneva soggetta la povera gente, e la faceva sgobbare; una minoranza di armatori navali e di grossi commercianti, e di preti. Non avete forse detto che la religione romana prese da quella etrusca una parte della sua liturgia? Una minoranza, oltre tutto, di politicanti, anzi, di fascisti. Il primo fascio littorio non è stato forse trovato a Volterra, città…antichissima…e di fondazione etrusca?”
Nelle celebri pagine successive Luciano Bianciardi riprendeva e amplificava, poi, l’immagine letteraria, di origine cassoliana, di Grosseto come Kansas City “città tutta periferia, aperta, aperta ai venti ed ai forestieri, fatta di genti di tutti i paesi” provocatoriamente e paradossalmente facendone risalire le origini e l’anno di fondazione al 1944 “né più né meno”, ad opera degli “americani”.
…Ma questa è tutta un’altra storia.

Luciano Bianciardi e un ricordo del “papa laico” Benedetto Croce

Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971) è stato giornalista, traduttore di scrittori americani quali Miller, Faulkner, Steinbeck e London, scrittore. Tra le sue opere fondamentali ricordiamo: “Il lavoro culturale” (1957), “L’integrazione” (1960), “La vita agra” (1962), che gli diede fama e successo, nonché i suoi romanzi di argomento storico come “La battaglia soda” (1964) e “Aprire il fuoco” (1969).
Ne “L’alibi del progresso”, edito da "ExCogita" con una prefazione di Dario Fo, che ne rammenta affettuosamente “la sua autoironia, la capacità si sapersi prendere in giro, ridere di sé…del mondo e del modo in cui si vive, dei propri tic e anche…dei propri errori”, sono raccolti alcuni dei suoi scritti giornalistici ed elzeviri. Ce n’è uno, in particolare, che mi piacerebbe sottrarre all’oblio del tempo e degli anni. Pubblicato su “La Gazzetta di Livorno” del 20 novembre 1953, nella rubrica “Incontri provinciali”, col semplice titolo “Ricordo di Croce”, in esso Luciano Bianciardi rendeva esplicito omaggio al filosofo di Napoli, ad un anno dalla sua morte.
L’articolo si apriva con una citazione di Croce, tratta dal “Contributo alla critica di me stesso”, Bari, Laterza, 1945, nuova edizione e, dopo aver ricordato la crociana deplorazione della I guerra mondiale “come un inutile massacro, capace peraltro di distruggere le basi stesse della civiltà europea”, sottolineava l’ “ alto posto nella storia del pensiero” di Croce e la sua “professione di fede politica nella cultura”, da lui profusa, con profondo senso del dovere, nella sua “opera di studioso e di cittadino insieme” nel lavorare alla “Critica”. La rivista crociana – rammentava ancora il Bianciardi – era “l’unica voce che durante l’oscurità fascista si levasse liberamente, qua da noi. Gli scritti del Croce e dei suoi migliori seguaci, i suoi libri (quei severi tomi con la copertina color marrone) erano diventati, per tanta parte della gioventù colta italiana, altrettanti livres de chevet, e si cercavano e si leggevano quasi in segreto. Molti di noi, forse tutti, siamo passati attraverso la grande esperienza crociana; questo perché la cultura italiana è stata, per qualche tempo, crociana senz’altro, od almeno ha fatto sempre i suoi conti col pensiero del filosofo napoletano; anche il suo maggior avversario, quello che purtroppo non ha potuto misurarsi con lui su di un terreno di parità, Antonio Gramsci.”
Quell’Antonio Gramsci – aggiungiamo noi – a cui lo stesso Croce, d’altro canto, volle rendere esplicito omaggio: quando, nel 1947, dopo l’uscita delle “Lettere dal carcere” quale primo volume delle “Opere” di Gramsci edite da Giulio Einaudi, riconosceva che il “libro appartiene anche a chi è di altro o opposto partito politico” e che “come uomo di pensiero Gramsci fu dei nostri, di quelli che nei primi decenni del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente”.
Non a caso, nel prosieguo del suo articolo, Luciano Bianciardi si soffermava a sottolineare proprio la grandezza dell’”apporto del Croce allo svecchiamento e alla sprovincializzazione della nostra cultura nazionale”, contro il Positivismo dominante verso la fine dell’Ottocento, con la sua “filosofia inferiore e grossolana”, e attraverso l’introduzione scientifica ed originale in Italia della grande filosofia classica tedesca e del pensiero hegeliano, “anche e soprattutto un nuovo strumento di pensiero”, grazie alla “logica dialettica”. Bianciardi non mancava di ricordare, al tempo stesso, come Croce mettesse a frutto anche “la grande lezione del De Sanctis, nella sua grande Estetica che in Italia è la prima teoria dell’arte compatta e rigorosa” e come riprendesse “lui napoletano, la grande tradizione del pensiero meridionale, rinvenendo nella corrente moderna dell’idealismo i germi maturati del pensiero di Giovan Battista Vico”. “ Croce” – continuava Bianciardi – “fu certamente, nel primo novecento, la voce più moderna della nostra cultura: non lasciò quindi intentata nemmeno l’esperienza marxista, che gli si presentò nelle lucide ed appassionate lezioni romane di Antonio Labriola. Vero è che il Croce non accettò quella dottrina, ed anzi la osteggiò, ma l’inserimento dell’utile, accanto ai tre valori tradizionali (bello, vero, buono) dimostra che anche questa lezione non rimase per lui senza profitto”.
L’elogio di Croce, tracciato da Bianciardi, proseguiva poi sottolineando come Croce, “che pur aveva esordito come ricercatore erudito di storie napoletane”, uscisse per primo “dalle secche della filologia erudita”, spaziando “in ogni campo della storiografia politica e letteraria”, e come, sia pur con “disuguaglianze e disarmonie” molti suoi scritti restassero “ancora insuperati, dalla “Storia d’Europa nel secolo XIX” a “Poesia e non poesia”, dal saggio su Goethe a quelli sulla letteratura della nuova Italia”.
Nella successiva parte del suo scritto, Bianciardi passava poi, dialetticamente, ad enumerare anche “i limiti” di Croce, quasi una conseguenza inevitabile del suo dominio per un cinquantennio sulla cultura italiana, di cui fu “insieme la guida e il moderatore”. Bianciardi individuava tali limiti “non soltanto nell’astrattezza e nella insufficienza…di certi saggi critici (soprattutto quello sulla poesia di Dante) ma anche nella relativa angustia dell’orizzonte critico del Croce, che non volle e non potè intendere (qualunque ne sia il valore) la letteratura e la poesia del Novecento. Il processo di sprovincializzazione che il Croce inaugurò in Italia non si potè quindi compiere integralmente; e la sua attività di organizzatore di cultura (cioè come direttore e nume delle edizioni Laterza) finì col determinare una sorta di nuovo provincialismo, col formare un nuovo circolo regionale, napoletano e pugliese, contro i tradizionali circoli romani, milanesi e fiorentini”.
Vero è che il Bianciardi non dimenticava di attribuire tali limiti anche alla complicità di circostanze esterne “non ultima, fra queste, il fascismo”, che non permisero di allargare ulteriormente “l’esperienza europea che la nostra cultura stava compiendo” o piuttosto ai “pedissequi ripetitori del crocianesimo”. “Infine” – annotava Bianciardi – “pur aprendo a tanti giovani colti le vie dell’opposizione e del culto della libertà, il Croce non seppe dare all’antifascismo ed alla “religione della libertà” un senso più ampio, totale”.
Fin qui l’analisi critica di Bianciardi, che non si può fare a meno di condividere sia pure nella sua estrema sintesi giornalistica. Ma il suo bilancio finale è altrettanto chiaro ed esplicito, perché Luciano Bianciardi concludeva il suo articolo con tali, testuali parole:
“Ma, a conti fatti, la nostra esperienza crociana è stata per molte ragioni salutare e non si può non consigliarla ancora ai giovani d’oggi. È un’esperienza fruttuosa, una sorta di vaccino mentale contro ogni possibile ritorno oscurantistico, contro la incultura, che è il peggiore di tutti i mali. Poi i giovani cammineranno oltre, come è accaduto a tutti noi. Ognuno scoprirà una strada più moderna, e la percorrerà da solo, o con altra guida: ma porterà sempre con sé un grato ricordo di “don Benedetto”, del vecchio maestro che anche noi, questa volta con scherzo affettuoso, chiameremo il “papa laico”.
Lo scritto di Luciano Bianciardi mi ha richiamato alla memoria un articolo di Norberto Bobbio, pubblicato, col significativo titolo “Un maestro di questo secolo”, nel volume edito da L’Opinione, nel 1978, “Benedetto Croce: una verifica”, in occasione del 25° anniversario della morte del Filosofo. In quello scritto Norberto Bobbio annoverava, tra i suoi maestri ed autori, Croce e, dopo aver ripercorso brevemente la sua personale esperienza di lettore del filosofo napoletano e affermato il valore della sua lezione per le generazioni precedenti e per la sua generazione, “forse l’ultima”, si chiedeva:
“Ma oggi?...Mi è accaduto spesso di paragonare la mia generazione a quella dei nostri figli che non ha avuto maestri. Non li ha avuti o non li ha voluti? Li ha bruciati (in effigie) e li ha vilipesi (non soltanto in effigie). Ma erano veri maestri? Ne dubito: durano due o tre anni e poi vengono dimenticati. Non mi domando se il non avere maestri li renda più liberi e felici, come essi credono, o più sventurati e più disorientati, come credo io. So soltanto, per mia esperienza, che poter contare su una bussola permette di navigare con maggiore sicurezza nel gran mare della storia, e ci preserva dalla tentazione di tornare ogni volta daccapo”.
Sapranno le giovani generazioni affrontare i problemi nuovi e sempre più complessi della realtà contemporanea, come potranno, e se sapranno, con le loro sole forze? O il triste spettacolo dei tempi in cui viviamo è, come prefigurava Norberto Bobbio, proprio la conseguenza dello smarrimento di ogni bussola e di veri ed autentici maestri?

martedì 6 aprile 2010

Amarcord: la mia breve esperienza di conduttore televisivo a TeleNapoli

Amarcord: la mia breve esperienza di conduttore televisivo a TeleNapoli

12 giugno 1978 - 29 gennaio 1979: undici puntate di “Freschi di stampa”

“Buonasera a tutti, dagli studi di TeleNapoli, da Aldo Maiorano”

Tra il 12 giugno del 1978 e il 29 gennaio del 1979 ho avuto la possibilità di condurre, prima con Enzo Nucci, poi da solo, una rubrica di presentazione di novità librarie, dal titolo “Freschi di stampa”, nell’ambito del programma televisivo “Strike”, ideato e diretto da Arnaldo Delehaye, per la libera emittente tv di “TeleNapoli”. Inizialmente nato come trasmissione per i giovani, “Strike” aveva riscosso un discreto successo, superando, già all’inizio del mese di gennaio 1979, le duecento puntate e le quattrocento ore di messa in onda, con un alto indice di ascolto. Il segreto della “spumeggiante trasmissione” di cui Arnaldo Delehaye era “l’ideatore, l’autore, il regista, ma non il conduttore” – come scriveva Antonella Salerno su il “Telecorriere” di Napoli, in un articolo del 14 gennaio 1979, anno I, n.° 10 –era proprio in quel suo “agire tra le quinte” e nel “dare spazio alle idee degli altri”, rispettando le diverse personalità e le richieste del pubblico, ma senza limitarsi ad ospitare solo cantanti o qualche “semplicistico quiz”. Tra le diverse rubriche di "Strike", intervallate da parentesi pubblicitarie, e, nonostante il “sapore dell’estemporaneo”, “impiantate su una meticolosa preparazione”, Antonella Salerno citava le seguenti: “Realtà medica”, condotta dal dott. Antonio Battista, “Teatro d’oggi” col commento critico di Giulio Baffi, “Cinema” di Enzo Nucci, “Portiamo avanti un certo discorso” con i giovani della FGCI, “Noi di noi” di Fabrizio Altamura, “Noi donne e il gol” di Jaja Forte, “A lampara” di Riccardo Canessa, “Diritto” del prof. Carlo Massa, “Freschi di stampa” “nella presentazione delle novità librarie a cura di Aldo Maiorano, “Caccia al rumore” di Enzo Niola, “Bric-a-Brac” di Franscesco Ruotolo, “Speciale con noi” di Beppe Bruno, “Un artista, una vita” di Rosetta Fidora Ruiz, “Terra, cielo e mare” di Gennaro Trama.
La rubrica ”Freschi di stampa” aveva il proposito esplicito di presentare libri, giornali, riviste, iniziative editoriali in genere, di più o meno recente pubblicazione o ristampa, allo scopo di fornire un minimo di informazione critica e qualche spunto di riflessione in un settore, quale quello dell’editoria e della produzione culturale, già in quegli anni sempre più caotico e dispersivo.
Andarono in onda dapprima tre puntate, in orario pomeridiano, nel mese di giugno 1978, di trenta minuti ciascuna, in cui Enzo Nucci ed io, eravamo insieme a condurre in studio la trasmissione.
La prima puntata andò in onda lunedì 12 giugno 1978 e fu dedicata a Jack Kerouac, ospite in studio il giornalista Antonio Filippetti, all’epoca direttore di “Scuola-Informazione” e autore del libro, per la collana di letteratura “Il Castoro”, “J. Kerouac”, La Nuova Italia.
Nell’intervista si cercò di analizzare, a grandi linee, la produzione poetica e letteraria di Kerouac: dal suo primo libro “The town and the city”, pubblicato nel 1950, a “On the road” (“Sulla strada”), con il quale lo scrittore raggiunse il successo nel 1957, un libro diventato subito il libro vangelo o la bibbia della beat generation”; da “I sotterranei” del 1958 e a “Dharma Bums”- “I vagabondi del Dharma”, romanzo epilogo di una sorta di felice “trilogia della strada”, definito da Allen Ginsberg come “uno straordinario testamento mistico”; da “Big Sur” del 1962 a “Vanità di Duluoz”, che concluderanno la parabola artistica di Kerouac in un definitivo disincantamento, dal suo iniziale spregiudicato anticonformismo letterario e sociale fino alla più aperta problematica esistenziale, mistica e romantica.
Al centro della conversazione con Filippetti c’era l’analisi della tesi del suo libro, finalizzato a “confutare le troppo facili esaltazioni imbastite intorno alla figura e all’opera di Kerouac” e la necessità di far entrare in gioco la “ragione critica” per analizzare storicamente e socialmente l’esperienza ( fuga dalla realtà o ricerca di una realtà in cui poter credere?) della beat generation (Kerouac, Ferlinghetti, Ginsberg), al di là di ogni mitologia acritica, per individuarne gli eventuali aspetti ancora progressivi e attuali.
La seconda trasmissione, sempre in collaborazione con Enzo Nucci, andò in onda il 19 giugno 1978 e fu interamente dedicata alla presentazione del volume “La questione giovanile”, a cura di D. De Masi e A. Signorelli, edito da Franco Angeli e, in particolare, alla Parte VI del libro che ospitava quattro ricerche di giovani sui giovani a Napoli, svolte a scopo di esercitazione nell’ambito delle attività didattiche promosse, tra il 1973 e il 1976, dalla Cattedra di Metodologia e Tecniche della ricerca sociale presso il Corso di Laurea in Sociologia dell’Università di Napoli.
Le ricerche erano le seguenti:
1. La “Street Corner Society” del Vomero, di Rosanna Blasi e Fulvia Caprara;
2. “I Delfini dell’Alta Borghesia”, di Anna Luisa Abbondanza e Maurizio Vitello;
3. “I Drogati”, di Antonio Ciraci e Maurizio Cuccurullo;
4. “I giovani di periferia: tempo libero e impegno culturale a Portici”, di Lia Cacciottoli, Fausto De Simone, Paolo Di Fraia, Teresa Di Gennaro e Antonio Paladino.
La terza puntata, andata in onda il 26 giugno 1978, fu – invece – interamente dedicata a Paolo Murialdi e ai problemi della stampa e dell’informazione, attraverso la presentazione di riviste sull’argomento, come “Problemi dell’informazione”, edita da Il Mulino e diretta da Paolo Murialdi, Giancarlo Carcano e Piero Pratesi, libri sul giornalismo come ”Intervista a Piero Ottone sul giornalismo italiano” a cura di Paolo Murialdi e i testi di Paolo Murialdi ,“Come si legge un giornale”, Bari, Laterza, 1975 e “La stampa italiana nel dopoguerra. 1943-1972, Bari, Laterza, 1973.
La rubrica “Freschi di stampa” fu, poi, interrotta nei mesi estivi e riprese ad andare in onda, con notevole ritardo, solo il 10 ottobre 1978, sempre nell’ambito del contenitore - programma “Strike”di Telenapoli, con alcune novità: la durata della trasmissione, sempre a cadenza settimanale, fu ridotta da mezz’ora a quindici minuti, per non appesantirla eccessivamente e per conferirle un ritmo più agile e incisivo, l’orario dal primo pomeriggio fu spostato alla sera e la conduzione mi fu affidata in esclusiva, senza più l’apporto, la collaborazione e la presenza negli studi televisivi di Enzo Nucci.
L’argomento della puntata del 10 ottobre 1978 fu interamente dedicato al periodico di satira a sfondo politico “Il Male”, inizialmente nato come mensile e poi diventato un settimanale di successo, irriverente, irritante e provocatorio che, in quel periodo, al prezzo di 500 lire a copia, aveva una vendita media giornaliera di 25.000 copie con punte di 30.000 per qualche numero particolarmente riuscito e fortunato. Nato a Roma, attraverso l’unificazione con il discusso inserto di satira di Lotta Continua “L’avventurista”, ideato da due “talenti minacciosi della sinistra”, come scriveva Gianni Riotta su L’Espresso del 9 luglio 1978 in un articolo dedicato proprio a “Il Male”, e cioè Vincino e Tersite, all’anagrafe Vincino Gallo e Vincenzo Sparagna, il settimanale fu definito da Sergio Saviane come “il primo giornale italiano, da 30 anni a questa parte, tutto ed esclusivamente di satira politica”. Vincino Gallo non era nuovo ad esperienze del genere. Siciliano di nascita, era stato chiamato a Roma a sostituire, nel quotidiano di “Lotta Continua”, Roberto Zamarin, ideatore del fumetto dell’operaio-massa “Gasparazzo”, morto in seguito ad un incidente stradale. Aveva poi partecipato alla stesura dei “Quaderni del Sale”, insieme a Pino Zac, vincitore, insieme a Guglielmo Zucconi, del Premio di Satira Politica a Forte dei Marmi ed era stato definito da Oreste Del Buono, direttore di Linus, come “il maggior talento satirico di cui disponga la nuova sinistra” e apprezzato anche da Stefano Benni, all’epoca corsivista de “Il Manifesto” e collaboratore di “Panorama”.
L’idea originale de “Il Male” fu la riproduzione contraffatta in fac-simile dei titoli delle prime pagine di alcuni quotidiani come “La Repubblica” (“Lo Stato si è estinto”), “Il Corriere dello Sport” (“Annullati i mondiali”) e “L’Unità” (“Basta con la DC”). Contraffazioni che avevano inizialmente procurato al settimanale tutta una serie di attacchi, accuse, tentativi di adire le vie legali, trasformatisi, tuttavia, in un potente mezzo di pubblicità. Raccontavo, nella trasmissione, del recente episodio della perquisizione da parte della polizia, per sospetto fiancheggiamento delle B.R., della sede de “Il Male”, per una piantina dell’Asinara presentata quale ameno luogo di villeggiatura, ma che si era poi era rivelata una riproduzione di una pagina tratta dall’Enciclopedia Britannica. Il periodo più incandescente era stato, però, quello relativo alla tragica vicenda di Aldo Moro. “Il Male” si era schierato dalla parte del “Partito della Trattativa” e dell’azione umanitaria tesa a fare tutto il possibile pur di salvare la vita del Presidente della Democrazia Cristiana, insieme alla famiglia Moro, a gruppi vicini alla D.C. e al P.S.I. di Craxi e ad alcune organizzazioni della Nuova Sinistra. Fu attaccato a più riprese da molti giornali, e in particolare da “L’Unità”, e accusato, per una vignetta di Aldo Moro (“Scusate, abitualmente vesto Marzotto!”), di fare satira di dubbio gusto, di umorismo nero, di operazione cinica e macabra e, addirittura, di fare il gioco delle Brigate Rosse. A propria difesa, “Il Male” aveva dichiarato che il suo scopo era solo quello di demistificare la violenza, di stravolgere il linguaggio codificato e normalizzato, di esprimere tutta la carica di fantasia e creatività, vera ed autentica anima del Movimento del 1977, in un’operazione satirica di rovesciamento del messaggio, di derisione surrealista e dadaista. Concludevo la trasmissione, dopo aver mostrato alla telecamera alcune prime pagine de “Il Male”, riaffermando l’importanza della satira politica quale strumento di libertà di coscienza e di anticonformismo, non a caso repressa nei paesi totalitari, ma al tempo stesso non nascondendo il rischio dello scadimento stesso della satira politica nella volgarità macabra o di infimo gusto, con una citazione tratta da un articolo di Luca Goldoni su “Il Corriere della Sera” del 1 ottobre 1978: “Si può sdrammatizzare la sorte che ci attende, è anzi un buon esercizio filosofico, un modo di esorcizzare uno spettro; ma normalmente si evita di raccontare la barzelletta funebre alla donna vestita di nero che segue un feretro”.
Dedicai la puntata di martedì 17 ottobre 1978 alla presentazione del libro di Paul Nizan, “Aden Arabia”, ristampato – dopo quasi vent’anni dalla precedente edizione – da Savelli, con una vibrante e sostanziosa prefazione di circa sessanta pagine del filosofo esistenzialista francese Jean Paul Sartre, nella traduzione di Daria Menicanti.
Scritto nel 1932, “Aden Arabia”, insieme un pamphlet e un racconto autobiografico, è stato il primo libro in senso assoluto di Nizan. Ad esso fecero seguito “I cani da guardia”, sempre nel 1932, “Antoine Bloye”, nel 1934 e “La Cospirazione”, nel 1938, per ricordare solo quelli più importanti.
Definito da Felice Piemontese, in una recensione su “Paese Sera”, come un “saggio-romanzo, romanzo-saggio, taccuino di viaggio e di riflessione antropologica”, “Aden Arabia” è l’espressione più nitida e piena della rivolta di Nizan, della sua inquietudine profonda, della sua angoscia esistenziale, propria di tutta una generazione a cavallo tra le due guerre mondiali, e negli anni settanta ancora attuale.
L’opera di Nizan, anzi, poteva essere presa a immagine di tutta una certa condizione giovanile e di una rivolta giovanile, di cui Nizan, sensibilissimo interprete, avrebbe potuto facilmente diventare il simbolo, come in certa misura è avvenuto negli anni sessanta che lo hanno almeno in parte riscoperto, se contro di lui, oltre i casi della vita, non si fossero accanite anche le manovre della burocrazia politica. Nizan, infatti, pur avendo aderito nel 1927 al Partito Comunista, nel 1938 se ne dimetterà in seguito alla firma del patto tra Germania e Unione Sovietica, diventando la vittima di una vera e propria campagna di persecuzione e diffamazione. Scrive, infatti, Sartre nella prefazione, a questo proposito: “I libri sospetti scomparvero. Furono intimiditi gli editori che li lasciarono marcire nelle loro cantine e i lettori non osarono più richiederli”.
Nizan morirà di lì a poco, a soli 35 anni, nel 1940, durante la ritirata di Dunkerque, colpito a morte da una pallottola alla nuca. Sartre, che conobbe in vita Nizan e di cui fu anche amico, ne tratteggia molto bene la figura nella prefazione.
La trama del romanzo si confonde con l’esperienza stessa di Nizan, giovane di provincia che “i casi scolastici e qualche saggio consiglio” portano all’Ecole Normale a interessarsi di filosofia. (Nel 1938 Nizan scriverà anche un saggio filosofico intitolato “I materialisti dell’antichità”). Resosi ben presto conto che L’Università non è altro che una fucina di dirigenti e tecnocrati in cui “la borghesia ingrassa i suoi intellettuali nelle stie perché non siano tentati di amare il mondo”, parte per l’Oriente, per sfuggire al clima culturale opprimente ed alienante della Francia degli anni ’20, alla ricerca di una vita più intensa e ricca di rapporti umani autentici e sinceri. Si accorge, tuttavia, che Aden Arabia, e con essa l’Oriente, non è che “un’immagine assai ristretta di nostra madre Europa: un concentrato di Europa”, i cui abitanti “sono come quelli di Londra e di Parigi”, esclamando – deluso – “Oriente, sotto i tuoi decantati palmizi, ancora una volta, io non trovo che nuova sofferenza umana”. Noia, sfruttamento, sofferenza, inquinamento dei rapporti umani tra le persone dominano l’Oriente così come l’Europa. Ma il viaggio in Oriente gli è servito, se non altro, a fargli capire che l’evasione e la fuga non servono a nulla, a fargli acquisire nuova consapevolezza. Bisogna “vivere tra i nemici”e “fuggire non serve”. “Quel che ci aspetta non è un gran bell’avvenire: diventare simili a loro con il ricordo scottante di aver voluto in gioventù vivere come uomini o diventare uno dei loro servi ed eseguire un lavoro assegnato e già tutto predisposto dal principio alla fine. Senza lotta non vedo altre conclusioni…Non voglio morire nella degradazione di un banchiere o nel decadimento di un docile manovale…Vivrò tra i nemici, con costanza, vale a dire non passivamente, ma senza lasciare che il tempo mi addormenti col mormorio pigro e piacevole del suo corso, con pazienza, attenzione, ira”.
Al ritorno da Aden Arabia, Paul Nizan s’iscrive al Partito Comunista Francese: il viaggio in Oriente gli appare, ora, come l’epilogo di una parabola che, dalla rivolta esistenziale inquieta e muta, l’ha portato alla coscienza politica e alla lotta. Ma Nizan non troverà ciò che cercava. Come Sartre mette in rilievo, la rivoluzione può forse liberare gli uomini dalla paura di vivere ma non da quella della morte e Nizan porterà con sé, fino al termine della vita, l’irriducibilità della sua inquietudine esistenziale.
Martedì 31 ottobre la rubrica “Freschi di stampa” si occupò dei “Nuovi Filosofi”, un gruppo di scrittori e ideologi francesi, per la maggior parte accademici, quali Jean Marie Benoist, Jean Paul Dolle, Andrè Glucksmann, Guy Lardeau, Bernard Henry-Levy, Philippe Nemo, tutti – ad eccezione di Benoist – ex marxisti, gauchisti e maoisti. A parlarne in studio, invitai il mio amico Ernesto Paolozzi, allora laureando in filosofia, collaboratore della rivista “Realtà del Mezzogiorno”, diretta da Guido Macera e della rivista “Nostro Tempo”, sulla quale aveva recensito il libro di Bernard Henry-Levy “La barbarie dal volto umano”.
In una breve introduzione, - sulla scia delle osservazioni svolte, in un articolo pubblicato sul numero di aprile di “Nord e Sud”, rivista diretta da Francesco Compagna, da Roman Zimand, docente di Sociologia della letteratura presso l’Accademia polacca delle Scienze - ricordavo i presupposti biografici ed ideologici dei nuovi filosofi. Roman Zimand li aveva individuati nell’esperienza, da un lato, del maggio 1968 e della “rivoluzione studentesca” e, dall’altro, nella lettura attenta dello scrittore russo A. Solgenitsyn, definito dallo stesso Bernard Henry-Levy come il “Dante del XX secolo”, sottolineando, altresì, la loro abilità nel farsi reciprocamente pubblicità, facendo parlare di sé la stampa. Nell’intervista con Ernesto Paolozzi furono analizzate la debolezza teorica dei “nuovi filosofi” (“C’è qualcosa di affine tra questa etichetta di nuovi filosofi e un porcellino d’India: il porcellino d’India non viene dall’India e non è un porcellino”), il loro linguaggio incontrollato e sconcertante, caotico e astratto (Lo stesso Levy aveva definito il suo libro “La barbarie dal volto umano” come un “romanzo d’avventura”), l’incoerenza, la mancanza di rigore e di originalità di molte loro idee. Al tempo stesso, tuttavia, fu messa in evidenza la giusta e sacrosanta critica, disincantata e demistificatrice, dell’idea di progresso e della concezione marxista della storia come necessariamente culminanti in una società perfetta e giusta e fu sottolineato, da Ernesto Paolozzi, come quella stessa critica, con ben altro rigore filosofico e scientifico, fosse già stata elaborata nelle opere di Benedetto Croce, in particolare, nel “Saggio sullo Hegel” e in “Materialismo storico ed economia marxistica”, o in quelle di K. R. Popper, che, in “La società aperta e i suoi nemici” e in “Miseria dello Storicismo”, aveva svolto un’attenta e serrata discussione critica delle illusioni della filosofia della storia e del determinismo storico, di matrice positivista e marxista, e delle loro erronee pretese di predire il corso degli eventi in modo razionale e scientifico. A conclusione dell’incontro si invitavano, pertanto, i telespettatori ad andare oltre le facili mode del pensiero, rappresentate dai “nuovi filosofi”, per riscoprire i testi, ben più filosoficamente fondati in quello che Hegel aveva chiamato “il lavoro del concetto”, di Benedetto Croce e di K. R. Popper.
La puntata di martedì 7 novembre 1978 fu interamente dedicata alla presentazione del libro di Luciano Pellicani “Gulag o Utopia? Interpretazioni del comunismo”. Non a caso, perché proprio negli stessi giorni (6 e 7 novembre, corrispondenti nel calendario russo ai giorni 24 e 25 ottobre) di 61 anni prima, scoppiava la rivoluzione bolscevica e i rivoluzionari russi occupavano Pietrogrado. L’8 novembre 1917, infatti, i bolscevichi assunsero tutto il potere nelle loro mani, attraverso il “Soviet dei commissari del popolo”, di cui fu designato Presidente Lenin; Stalin fu nominato commissario per le nazionalità e Trotsky commissario agli affari esteri. La “Rivoluzione d’ottobre” era, ormai, un fatto compiuto.
A distanza di tanto tempo da quei giorni che “fecero tremare il mondo”, come scrisse John Reed nel suo famoso reportage giornalistico, Luciano Pellicani, nel suo libro, tentava di analizzare le “molteplici e ancora assai differenziate” interpretazioni della natura sociale dell’Unione Sovietica.
Dopo aver presentato l’autore, quale uno degli animatori della polemica allora in corso sul leninismo ed ideologo del “nuovo corso” socialista inaugurato da Craxi, libero docente di sociologia politica presso l’Università di Napoli, notista politico del settimanale “L’Europeo”, direttore della rivista teorica del P.S.I. “Mondoperaio” e scrittore di numerosi volumi tra i quali “Introduzione a Marx”, “I rivoluzionari di professione”, “Gramsci e la questione comunista”, “Dinanica delle rivoluzioni”, cominciai ad illustrare l’agile e completo volumetto scritto da Luciano Pellicani in forma chiara ed espositiva (100 pagine al prezzo di 1500 lire), ricorrendo a una citazione di Paolo Flores d’Arcais. Quest’ultimo, in una recensione apparsa sul “Corriere della Sera”, l’aveva definito come “il primo vero e proprio manuale sulle diverse interpretazioni sociologiche della natura del sistema sociale dell’Unione Sovietica”, così com’era emerso e si era configurato dopo la Rivoluzione d’ottobre. Un lavoro divulgativo, genere ingiustamente considerato minore in Italia, a differenza dei paesi anglosassoni, ma di cui Paolo Flore d’Arcais sottolineava giustamente la funzione positiva e stimolante a livello culturale, quando la divulgazione non è appiattimento o eccessiva esemplificazione di temi ben più complessi ma capacità di portarli con tutta la loro complessità, “in modo non dilettantesco ma sistematico”, ad una cerchia più vasta di quella dei cosiddetti “addetti ai lavori”.
Entravo, infine, nel merito del libro di Pellicani e delle diverse teorie e dei diversi filoni interpretativi del significato storico e culturale del comunismo moderno, illustrandole per sommi capi:
1) INTERPRETAZIONE UFFICIALE E ORTODOSSA, definita da Pellicani, del “Socialismo realizzato”, in cui la rivoluzione d’ottobre era concepita come autentica rivoluzione proletaria che ha avuto per protagonista la classe operaia e che ha posto le basi del primo stato operaio della storia dell’umanità;
2) INTERPRETAZIONE ANARCHICA, le cui radici affondavano, secondo Pellicani, nella polemica tra Proudhon e Marx e tra Bakunin e Marx, che segnò il fallimento della I Internazionale. Gli anarchici avevano individuato, infatti, nel modello leninista una nuova e più perfetta forma di dominio dell’uomo sull’uomo, concependo il regime sovietico uscito dalla rivoluzione non come la “dittatura del proletariato”, ma come la dittatura di una minoranza di intellettuali marxisti sulla classe operaia;
3) INTERPRETAZIONE SOCIALDEMOCRATICA. A differenza di quella anarchica, che pur muovendosi all’interno della tradizione socialista è fortemente polemica verso il marxismo, la critica socialdemocratica si richiama, invece, esplicitamente a Marx ed Engels. Luciano Pellicani la suddivide schematicamente in due versioni: quella di Kaustky, che contrappone frontalmente marxismo e leninismo, quest’ultimo estraneo al primo, in quanto responsabile di aver rovesciato il rapporto dialettico esistente tra struttura economica e sovrastruttura politica, in quanto Marx aveva ritenuto impossibile la rivoluzione socialista in un paese che non avesse ancora conosciuto uno sviluppo capitalistico maturo; quella di Rosa Luxemburg e della sinistra socialdemocratica, che pur criticando l’ideologia leninista e il terrore rosso instaurato dai bolscevichi, non giunsero tuttavia a valutare del tutto negativamente la rivoluzione russa;
4) INTERPRETAZIONI di WEBER, VON MISES e VON HAYEK. Esse sottolinearono il dispotismo e il collettivismo burocratico del socialismo, conseguenza della soppressione del mercato e della statizzazione integrale dei mezzi di produzione;
5) TESI di TROTSKY della RIVOLUZIONE TRADITA. Contraddittoria rivendicazione, in nome della stessa ortodossia leninista, della natura operaia dello stato sovietico, benché degenerato per l’emergere di una casta burocratica impersonata da Stalin;
6) TESI di RIZZI, GILAS, MARTINET e OTA SIK. Essi individuarono nel regime sovietico la comparsa di una nuova vera e propria classe burocratica che, attraverso il monopolio ideologico, economico e politico, sfruttava il popolo russo, in nome del marxismo diventato, per ironia della sorte, esso stesso “oppio del popolo”;
7) TEORIA DEL TOTALITARISMO, ad opera di Carl Friedrich, Brzezinski, Hannah Arendt e che, come lo stesso Luciano Pellicani precisa in una nota, fu esemplarmente esposta da Orwell nel suo romanzo “1984”. In base a tale teoria lo stato totalitario, sia esso nazista (totalitarismo di destra) o comunista (totalitarismo di sinistra), si caratterizza per il controllo burocratico che istituisce su tutte le manifestazioni della vita umana individuale e collettiva, negando nelle sue fondamenta gli stessi principi costitutivi ispiratori della società liberale e democratica, pluralistica, di tipo occidentale;
8) INTERPRETAZIONE DEL COMUNISMO COME RIPROPOSIZIONE ULTIMA DEL MESSIANESIMO GIUDAICO-CRISTIANO. Tale tesi fu formulata da John Keynes che concepì il comunismo come una religione di salvezza universale, teso a liberare il mondo dal male e a costruire in terra un regno di Dio senza Dio;
9) TESI DEL COMUNISMO COME MODERNIZZAZIONE DIFENSIVA. Interpretazione del comunismo come dottrina politica e tecnica dell’industrializzazione dei paesi in ritardo sulla via dell’industrializzazione, attraverso uno sviluppo economico a marce forzate. Tale tesi intendeva spiegare, con ciò, l’enorme diffusione del marxismo-leninismo nei paesi del terzo Mondo e a interpretare la stessa rivoluzione russa come “rivoluzione del sottosviluppo”. Il leninismo fu concepito come “una teoria dello sviluppo politico”, grazie alla quale alcuni paesi al di fuori della linea evolutiva dell’Occidente sono riusciti ad aprirsi una via verso la moderna società industriale;
10) TEORIA DELLA RESTAURAZIONE ASIATICA, di Wittfogel e Safarevic, secondo cui esisterebbe una specifica formazione sociale “asiatica” o orientale, caratterizzata dal forte predominio dello stato sulla società civile, con una struttura di tipo monocentrico, a differenza delle società occidentali, a struttura policentrica e animate da una conflittualità permanente.
A conclusione della puntata e dell’elenco schematico delle diverse interpretazioni del comunismo, esposte da Luciano Pellicani, sottolineavo come, a conferma della scientificità ed imparzialità del suo lavoro, non emergesse in modo esplicito l’ipotesi ermeneutica dell’autore di “Gulag o Utopia?”, rinviando il telespettatore eventualmente interessato a conoscerne l’opinione ad altri suoi testi, quali “I rivoluzionari di professione” o “Dinamica delle rivoluzioni”.
Dopo le trasmissioni di “Freschi di stampa” dedicate alla satira politica (“Il Male”), alla letteratura (Paul Nizan), alla filosofia (I nuovi filosofi) e alla sociologia politica (Le interpretazioni del comunismo), la puntata di martedì 14 novembre 1978 fu incentrata sul libro, di taglio più giornalistico, di Cesare Garelli, intitolato “Il linguaggio murale” e sul fenomeno, tra i più appariscenti in quel periodo, delle scritte murali. Cesare Garelli, giornalista, laureato in Filosofia con una tesi sulla Sofistica e sulla democrazia ateniese, era uno studioso dei problemi del linguaggio giornalistico e della comunicazione. Proprio su questi temi aveva scritto i suoi due primi libri, “La burolingua quotidiana” (1968) e “Lessico prefabbricato” (1974), dedicato allo specifico linguaggio dei giornali. Collaborava a diverse riviste, da “Il Contemporaneo”, a “Il Mulino”, a “Diogene”, “Proposte”, “Uomini e libri”, “Il lettore di provincia”, “Rèsine”. Il suo libro sul linguaggio murale era stato definito come il “primo saggio analitico vero e proprio” sulla letteratura murale di quegli anni e sulle trasformazioni che essa aveva subito dal 1968 al 1977, simbolo della crescente attenzione giornalistica al fenomeno. Recentemente se ne era occupata anche la Televisione che il 24 ottobre, sulla Rete Uno, nel programma “Scatola aperta”, aveva mandato in onda un servizio di Alberto Negrin, regista di film e sceneggiati televisivi, dal significativo titolo “Viva, Abbasso: dramma di una comunicazione”. L’inchiesta tv prendeva in esame una serie abbastanza nutrita di scritte sui muri sparse per tutta Italia. Lo scopo era quello di enucleare i temi predominanti di questa “nuova forma di comunicazione sociale”, attraverso interviste ai diretti protagonisti (alcune studentesse romane) e ad alcuni esperti quali Paolo Fabbri, docente di comunicazione di massa all’Università di Bologna e Renato Nicolini, assessore alla cultura del Comune di Roma.
Il libro di Garelli riproduceva un’antologia di scritte riguardanti, da un lato, il maggio francese del 1968 e, dall’altro, la contestazione del movimento del 1977, con un confronto critico sia a livello stilistico, sia contenutistico, seguito da un’analisi più approfondita del fenomeno delle scritte murali, da vari punti di vista: sociologico, psicologico, linguistico, giuridico. Di grande interesse era, poi, il capitolo dedicato da Garelli ad un breve excursus storico sulle scritte murali del ventennio fascista, scritte che, in quell’epoca, furono impresse sui muri ad opera dello stesso regime. A testimoniare il fatto che sui muri, nonostante l’indubbio proliferare del fenomeno in tempi recenti, si era sempre scritto e scritto di tutto. Scriveva Garelli nel suo libro: “Deplorano alcuni che la letteratura murale deturpi l’immacolatezza della calce (e perciò la stimano turpe); ma la verginità della calce già era stata più volte violata. Durante il fascismo la violarono le frasi di Mussolini…nell’epoca del boom e sino ad oggi l’ha violata, con i suoi affiches, l’innumerevole pubblicità”. La diffusione del fenomeno negli anni settanta era facilitata anche da una serie di nuovi mezzi tecnici, poco costosi e facilmente reperibili, quali bombolette spray, pennarelli giganti, vernici a presa diretta…Schizzi, frasi, scritte, disegni, slogan politici, parole oscene, colorate o in bianco e nero facevano sempre più sfoggio di sé sulle facciate dei palazzi, sulle pareti delle cabine telefoniche, sui muri al punto tale che sembravano rincorrersi tra loro, sovrapporsi, scontrarsi, cancellarsi a vicenda. Dalle scritte politiche di propaganda a quelle di stampo sportivo, dall’oscuro grafomane malinconico che incitava “Mangiatevi vivi per favore” alle espressioni paradossali, dal significato piuttosto ermetico, per finire alle scritte vicino e dentro le scuole o le Università, nelle gallerie delle metropolitane e delle funicolari: tutto un mondo di parole, gesti, sguardi, voci consegnato all’anonimato e alla nudità delle scritte. Garelli indagava, al di là di una mera analisi fenomenologica e descrittiva del fenomeno, le ragioni e le motivazioni profonde di questo nuovissimo ed inusuale mezzo di comunicazione utilizzato dagli “amanuensi del gessetto”: dall’angoscia alla solitudine all’emarginazione al desiderio di espressione, comunicazione e partecipazione alla vita politico-culturale del paese di masse sempre più larghe di giovani, individuandone alcuni esempi nei da-tse-bao della rivoluzione culturale proletaria cinese e nei murales cileni. I muri, faceva notare Garelli, sono diventati ormai un altro spazio, insieme ai manifesti, ai giornali, alle radio private, ai volantini, per lanciare parole d’ordine e slogan politici, per inviare il proprio messaggio attraverso i “muri che parlano”, emblema di una civiltà sempre più caratterizzata dalla velocità e dall’onnipresenza delle informazioni, dei messaggi e delle immagini, una sorta di “parenti poveri” della televisione, della radio e della pubblicità. A conclusione dell’analisi del libro di Garelli, illustravo alle telecamere altre recenti pubblicazioni sul tema: da Emilio Tiberi, “La contestazione murale” (sulle scritte del maggio francese), ai testi di Froio e Di Nallo sulla contestazione del 1977 e sulle scritte degli “Indiani in città”, alla voce “Comunicazioni di massa” curata da Pio Balzelli per l’Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, ad un libro di Cutilli, Filippi e Petrucci sulle scritte murali a Roma, per finire con un articolo pubblicato sul numero 0 della rivista “L’Araba Fenice”, a firma di Luigi Lombardi Satriani, tratto dal suo ultimo libro “Rivolta e Strumentalizzazione: il caso di Reggio Calabria, una dettagliata analisi delle scritte studentesche e dei rapporti e delle analogie esistenti tra subcultura giovanile e folklore tradizionale.
La puntata successiva, non ricordo più per quale motivo, andò in onda solo il lunedì 18 dicembre 1978, affrontando quello che era stato definito il “Caso Cassola”: “il caso cioè di uno scrittore che, dopo un quarto di secolo di narrativa incentrata sui sentimenti privati e sull’insignificanza della storia, decide di affrontare i suoi lettori con una tematica del tutto diversa e interamente pubblica: quella della minacciata sopravvivenza del genere umano”. Con tali parole di Domenico Tarizzo, tratte dalla sua introduzione al libro-intervista di Carlo Cassola “Letteratura e disarmo”, introducevo l’argomento della trasmissione, ricordando altresì come la formula editoriale dell’intervista con l’autore avesse riscosso notevole successo in questi anni: dall’intervista allo scrittore scomodo Alberto Moravia, a cura di Nello Ajello, a tutta la lunga serie dei libri-intervista pubblicati da Laterza: una formula non priva di pregi per la possibilità che essa offriva, nella sua agilità e concisione, di un approccio diretto ai temi e di una conoscenza più approfondita e diretta dell’autore in questione.
Prima che alcuni suoi articoli fossero pubblicati sul “Corriere della Sera”, a partire dal 1975, e svelassero, per così dire, l’ultimo e nuovo volto dello scrittore, Carlo Cassola era considerato un letterato “disimpegnato”, difensore di una letteratura a direzione prevalentemente lirico-intimistica, volta – come egli stesso ebbe a dire – “a squarciare il velo opaco che nasconde le cose”. La sua ricerca era stata e continuava ad essere di tipo prevalentemente esistenziale, nel rifiuto dell’ideologia e nella sfiducia verso la Storia, con la esse maiuscola, per dirla con Elsa Morante. Cassola era collocato tra i testimoni della crisi del neorealismo, diventando forse proprio per questo l’idolo polemico della neo-avanguardia negli anni ’60, che in lui e in Giorgio Bassani vedrà il ritorno ad una vecchia nozione di letteratura, in bilico tra vittimistico lamento sulla condizione dell’uomo e vocazione consolatoria. Lo stesso Cassola ricordava nell’intervista come nel ’60 fosse diventato uno scrittore di successo. “Da quel momento ogni altro letterato che fosse rimasto oscuro mi giurò odio. Io diventai così il bersaglio dell’avversione generale. Di questa avversione si fece interprete Sanguineti, leader del Gruppo ’63, che mi qualificò la Liala del ’63: cioè uno scrittore rosa, uno scrittore d’evasione”. Cassola dichiarava di accettare la qualifica solo se essa serviva a distinguerlo da un Sartre o da un Vittorini, ma al contempo informava i suoi lettori di avere come modelli Voltaire, Rousseau e Diderot, un po’ ambiziosamente come ebbe modo di notare Vittorio Gorresio, in una recensione su “Tuttolibri”.
Ma come può essere accaduto, allora, che uno scrittore famoso per la sua tematica privata e l’analisi dei sentimenti (dai suoi racconti raccolti nel volume “La visita” ai suoi principali romanzi “La ragazza di Bube”, “Un cuore arido”, “Monte Mario”, “Gisella”, “L’antagonista” fino a “L’uomo e il cane”) si sia messo ad utilizzare la terza pagina di un grande quotidiano nazionale come “Il Corriere della Sera” per invocare addirittura il disarmo unilaterale dell’Italia, conducendo un’accanita battaglia per eliminare l’esercito e il connesso militarismo, primo vero e reale pericolo della pace nel mondo?
Il legame con la sua produzione precedente, affermava Cassola nell’intervista, c’era, esisteva ed esiste proprio nel suo rifiuto dell’ideologia, con il suo conseguente anarchismo, e nella centralità della vita e dell’esistenza umana, prima e al di sopra di ogni valore, esistenza e vita oggi per l’appunto minacciate dalla bomba atomica e dal pericolo di una nuova e questa volta, presumibilmente, fatale e fatidica III guerra mondiale. Cassola ricordava, a tal proposito, le allarmanti e sgomente parole già pronunciate nel 1955 da Albert Einstein e Bertrand Russell: “O l’umanità distruggerà gli armamenti o gli armamenti distruggeranno l’umanità”.
E sicuramente, alla base del Cassola politico di oggi c’è quel suo profondo amore per la vita e per l’uomo che lo fa inorridire di fronte al solo pensiero che oggi non è in pericolo questa o quella civiltà, questo o quel sistema sociale e politico, ma la possibilità stessa della sopravvivenza del genere umano e della sua stessa esistenza, portandolo a parafrasare la famosa espressione di B. Russell “meglio rosso che morto”, in quella di “meglio sudditi di Amin che morti”.
La prima tesi che nel suo libro intervista Cassola difende con tanta tenacia e abnegazione è che “per l’Italia è affatto inutile lo sforzo finanziario che essa compie per dotarsi di una difesa”, in quanto, come risulta da uno studio strategico inglese, le forze armate italiana, in caso di guerra, non potrebbero resistere che al massimo per sole otto ore di fronte all’avanzata del nemico. “Vale la pena” – si chiede lo scrittore – “svenarsi per tenere in piedi una copertura militare che, nell’ipotesi più ottimistica, ci tutelerebbe solo per otto ore?” L’esercito e le spese militari assorbono tali ingenti somme di danaro che, per Cassola, meglio sarebbe se fossero utilizzate e destinate alla costruzione di scuole, ospedali, case etc…
L’altra tesi di Cassola è l’abolizione radicale dell’art. 52 della Costituzione della Repubblica Italiana che sancisce il sacro dovere della difesa della Patria e istituisce la coscrizione obbligatoria. La sua battaglia politica, tuttavia, in parte per la foga e il furore delle sue argomentazioni, in parte per la rabbia che l’anima nei confronti della cecità e dell’indifferenza dei contemporanei, rischia di compromettersi e di perdere forza d’urto e di persuasione a causa di non poche sue considerazioni e affermazioni un po’ pretenziose e avventate. Come quando a un certo punto afferma: “Croce e Gramsci, tanto per essere chiari, non sono uomini di cultura, in quanto non hanno pensato mai niente di originale”: affermazioni incomprensibili e controproducenti a tal punto da far affermare a Vittorio Gorresio: “Si comincia a pensare, anzi a temere, che Cassola abbia dato troppa importanza a quelle che sono state certe inevitabili critiche alla sua narrativa e che perciò si sia gettato con foga in una battaglia politica di portata universale per dimostrare, contro le insinuazioni dei suoi nemici, di essere invece capace di molto fiato civile”.
A conclusione della trasmissione invitavo i telespettatori, interessati a conoscere l’ultima fase della produzione letteraria di Carlo Cassola, a leggere anche gli altri ( oltre a “Letteratura e Disarmo”) ultimi suoi libri: da “Un uomo solo”, in cui Cassola fa implicitamente la sua professione di fede per l’anarchismo a “Il superstite”, racconto dell’infelicità della solitudine attraverso l’esperienza di un cane, Lucky, sciocco, sventato e generoso, rimasto alla fine solo sulla Terra in seguito ad un’esplosione atomica che ha distrutto a poco a poco gli uomini e anche gli altri animali, per finire a “La lezione della storia”, forse quello più esemplare e significativo della sua svolta letteraria e politica. In tale libro lo scrittore si cimenta in una critica radicale dello storicismo, delineando la sua attuale posizione politica e ideale nella lotta per l’abolizione delle istituzioni militari, della guerra, degli stati sovrani e delle frontiere, nella prospettiva di una società anarchica da realizzare attraverso l’uso di un “temporaneo potere anarchico”. La catastrofe della guerra atomica nucleare è sempre più imminente, avverte Cassola. Si abolisca, pertanto, la guerra!
Dopo la pausa per le festività natalizie, la trasmissione “Freschi di stampa” ritornò in onda lunedì 8 gennaio 1979 con la presentazione del volume, pubblicato da una casa editrice napoletana, nel dicembre 1978, del filosofo Raffaello Franchini, “Intervista su Croce”, a cura di Arturo Fratta. A parlarne in studio invitai nuovamente Ernesto Paolozzi, allora giovane studioso del pensiero crociano. Il libro era già stato presentato in pubblico il 7 dicembre, in una riunione affollata, presso il Circolo Artistico di Napoli, alla presenza del noto critico letterario Mario Sansone, di Leonardo Cammarano, di Luigi Compagna e degli stessi Raffaello Franchini e Arturo Fratta. Si trattava di un libro agile, ma non per questo meno rigoroso, ed esplicitamente rivolto ad un pubblico il più possibile vasto ed articolato, di un’intervista fatta non a tavolino, ma con citazioni a memoria, in cui l’andamento del periodare riproduceva la parola parlata, registrata e riveduta nel testo solo per la parte formale. Scopo del libro era quello di ristabilire alcune verità su Croce e offrire un ulteriore stimolo alla discussione e alla chiarezza sul filosofo napoletano in tempi in cui la sua opera sembrava quasi misconosciuta. Nella premessa all’Intervista su Croce ci si chiedeva: “Perché chi ne professa le dottrine rischia l’emarginazione o lo stupido sorriso di compatimento? Perché insomma è vietato parlare del maggior filosofo italiano del ‘900 se non per fargli dire il contrario di ciò che ha sostenuto o per criticarlo in maniera del tutto estrinseca e banale? Ernesto Paolozzi svolse il compito di illustrare il valore e l’opportunità del libro, i meriti e i pregi principali del pensiero di Benedetto Croce e gli aspetti ancora moderni ed attuali del suo pensiero, in specie in riferimento alle nuove generazioni, senza tacerne – tuttavia – i limiti, riconosciuti peraltro dallo stesso Raffaello Franchini nel suo libro intervista. Nel corso della conversazione con Ernesto Paolozzi, a conferma da quanto da lui sostenuto, ricordai le parole recentemente pronunciate dal grande filosofo della politica e tra i più qualificati esponenti del socialismo liberale italiano, Norberto Bobbio, in un breve intervento, pubblicato nel volume “Benedetto croce: una verifica”, edizioni L’Opinione, 1977, in occasione del 25° anniversario della morte del filosofo “napoletano”, da lui riconosciuto e considerato come un vero e proprio Maestro:
“Mi è accaduto spesso di paragonare la mia generazione a quella dei nostri figli che non ha avuto maestri. Non li ha avuti o non li ha voluti? Li ha bruciati (in effigie) e li ha vilipesi (non soltanto in effigie). Ma erano veri maestri? Ne dubito. Durano due o tre anni e poi vengono dimenticati. Non mi domando se il non avere maestri li renda più liberi e felici, come essi credono, o più sventurati e più disorientati, come credo io. So soltanto, per mia esperienza, che poter contare su una bussola permette di navigare con maggior sicurezza nel gran mare della storia e ci preserva dalla tentazione di tornare ogni volta daccapo”.
La conversazione con Ernesto Paolozzi si sviluppò poi a tracciare un sintetico quadro dell’influsso esercitato dalle dottrine e dalle opere crociane sulla cultura italiana della seconda metà del secolo XX, anche per sottolinearne una presenza spesso sottovalutata, e si concluse con una breve considerazione su alcuni segnali di riscoperta e di rilettura dei libri di Croce, in specie da parte dei più giovani. Chiusi l’intervista a Ernesto Paolozzi sull’Intervista su Croce di Raffaello Franchini, citando le parole conclusive del libro: “Il lettore è vivamente consigliato di evitare gli intermediari e i commentatori e di mettersi a leggere qualsiasi libro di Croce attragga il suo interesse: il resto verrà da sé”.
L’ultima puntata di ”Freschi di stampa” fu trasmessa lunedì 29 gennaio 1979, presentando e recensendo, a differenza delle altre trasmissioni, non un solo libro ma più pubblicazioni. Il primo volume segnalato fu “Benedetto Croce: una verifica”, edizioni L’Opinione, pubblicato per commemorare il 25° anniversario della morte del Filosofo. Tra i vari contributi, ricordai quelli di Gennaro Sasso, Giuseppe Galasso, Vittorio Enzo Alfieri, Rosario Assunto, Francesco Compagna, Natalino Sapegno, Domenico Settembrini, Raffaello Franchini e Denis Mack Smith, nonché l’interessante articolo di Francesco Barone dal titolo “Scienza? Il perché di un no”.
Segnalai, poi, alcuni volumi sul problema del leninismo, tra i quali: Paolo Mieli, “Litigio a sinistra”, L’Espresso, 2500 lire, ricostruzione commentata della polemica su “socialismo e leninismo” nella sinistra italiana, con un saggio inedito conclusivo di Massimo Salvadori; Franco Russo, “Il marxismo di Lenin”, definito da “Tuttolibri” (23 dicembre 1978) come “un contributo denso e vivace al dibattito in corso sui rapporti tra leninismo e democrazia, nonostante qualche venatura apologetica”; Luciano Pellicani, “Che cos’è il leninismo”, sul quale mi soffermai più a lungo per illustrare la tesi dell’autore, vale a dire “l’incompatibilità organica tra comunismo e pluralismo, data la natura intimamente totalitaria del progetto leninista”. Lessi per intero una parte della premessa al libro di Luciano Pellicani, particolarmente polemica e dura: “Questo saggio fu pubblicato nel 1970 in una edizione quasi clandestina, sicchè può essere considerato, per i non addetti ai lavori, ancora inedito. In quegli anni trovare un editore democratico disposto a pubblicare una critica senza riguardi, ancorché filologicamente rigorosa, della filosofia politica di Lenin, non era facile. Le difficoltà editoriali che successivamente incontrai quando ultimai “I rivoluzionari di professione”…mi confermarono che operavano nel seno della società italiana formidabili meccanismi di censura per impedire la diffusione di ogni discorso non mitologico intorno al rivoluzionarismo. Ci fu persino chi mi consigliò di occuparmi di altri temi, poiché rischiavo di farmi dei nemici accaniti e di essere bollato, malgrado la mia militanza nel Partito Socialista, come un agente della reazione. Con ostinazione proseguii nelle mie ricerche, pur sapendo che scattava automaticamente una sanzione negativa contro coloro che volevano mettere in discussione la tesi, completamente arbitraria, secondo la quale leninismo e socialismo coincidevano. A nulla valeva documentare puntigliosamente che era esistita ed esisteva una critica “da sinistra” della teoria e della prassi del costruttore del primo stato comunista del nostro secolo…Mettere in discussione il carattere democratico e liberatorio del leninismo significava opporsi alla volontà della Storia e alla politica del suo strumento privilegiato: il Partito rivoluzionario. Insomma, quello che Paolo Flore d’Arcais e Giampiero Mughini hanno battezzato con felice espressione linguistica “sinistrese”, la faceva da padrone nelle università…Fortunatamente negli ultimi tre anni, a partire dall’ormai famoso saggio di Norberto Bobbio sulla dottrina marxista dello Stato, il clima psicologico e morale è radicalmente cambiato. La sinistra revisionista è finalmente uscita allo scoperto e ha cominciato a incalzare i custodi dell’ortodossia ponendo loro domande precise sulla possibilità di conciliare pluralismo e comunismo…Per dirla senza mezzi termini, Lenin è stato il più consequenziale interprete di Marx e colui che ha costruito la macchina organizzativa – il Partito rivoluzionario – che ha permesso a Stalin di sottoporre decine di milioni di esseri umani al più spietato sistema di dominio di tutti i tempi e di tutte le civiltà. A nulla vale ricordare le motivazioni che mossero Marx e Lenin. Una dottrina politica va giudicata sulla base della prassi cui essa mette capo. Il minimo che si possa dire è che il marxismo-leninismo soffre di una acuta forma di eterotelia: produce esattamente il contrario di quello che promette. A ciò si aggiunga che gli esiti liberticidi del comunismo non erano affatto imprevedibili. Le profetiche pagine che Proudhon, Bakunin, Merlino (per citare solo qualche nome) hanno scritto sulla natura necessariamente dispotica del collettivismo economico e sociale dimostrano che il verme era nel frutto…Il che porta alla seguente conclusione: che leninismo e socialismo non solo non sono equivalenti, ma sono quanto di più antitetico si possa immaginare. Il socialismo è lo sforzo di saldare la democrazia economica alla democrazia politica e di universalizzare i valori liberali socializzando il mercato. Il comunismo, per contro – non lo si ripeterà mai abbastanza – rappresenta il più organico e insidioso progetto – insidioso perché compiuto in nome della libertà e della giustizia – di strozzare la città secolare e di ripristinare il dominio ierocratico, ponendo nelle mani della burocrazia carismatica tutto il potere politico, economico e spirituale”.
Mi permettevo, tuttavia, di sollevare qualche perplessità sulla lucida analisi svolta da Luciano Pellicani. Parafrasando quanto sostenuto da Lucio Colletti, proprio sull’ultimo numero de L’Espresso (28 gennaio 1979), l’argomento che il comunismo o leninismo finora realizzato era solo quello esistente nelle forme dispotiche e autoritarie ben note non teneva nel debito conto l’idea altrettanto presente nel patrimonio teorico del comunismo di una democrazia ben più ricca e multiforme, fondata sull’autogoverno dei produttori, sulla democrazia diretta o di massa, delineata già da Marx negli scritti sulla Comune di Parigi e da Lenin in “Stato e rivoluzione”: una concezione dove – è Lenin a dirlo nei quaderni preparatori del suo scritto – il marxismo si tocca e coincide per 9/10 col pensiero anarchico, salvo la differenza di non ritenere lo stato abolibile su due piedi. Ricordavo, altresì, l’acuta osservazione di Lucio Colletti che invitava alla necessità di “confrontarsi con quest’idea di democrazia…perché il comunista che abbia quegli scritti nella mente (o piuttosto nel cuore), dalla critica del comunismo in chiave di dispotismo autoritario non è toccato affatto, o solo marginalmente”.
Segnalavo, poi, alcuni libri sull’Indocina, anche a partire dagli avvenimenti recenti, tristi e sanguinosi, dell’aggressione alla Cambogia da parte del Vietnam filo-sovietico ( da Ho Chi Minh, “Diario dal carcere” a J. Chesneaux, “Storia del Vietnam”, a D. Ellsberg, “Vietnam, verità e menzogna a W. Burchett, “La guerra di popolo nell’Indocina, Laos e Cambogia, a “Cambogia. I Signori del Terrore” di Jean Lacouture, collaboratore di “Nouvel Observateur”, scrittore e giornalista ed esperto dei problemi del Terzo Mondo e, in particolare, del Sud-Est asiatico.
A conclusione della puntata, infine, segnalavo due libri su Napoli, scritti da due napoletani: “Napoli, la città racconta” di Renato Ribaud, autore già conosciuto affermato di soggetti satirici ed ironici, “garbato affresco partenopeo”, dalla “trama sottile” di un “suonatore di pianino che, attraverso le vie della città, ne racconta origini e caratteristiche, sempre divertenti e interessantissime” e “Il primo maggio le dissi addio”, raccolta di 14 racconti di Antonio Ghirelli, notissimo giornalista e in procinto di diventare addetto stampa del Presidente della Repubblica Sandro Pertini.



Note biografiche su Enzo Nucci ed Ernesto Paolozzi

* Enzo Nucci è nato a Napoli il 02/07/1957. Scrive i primi articoli a 16 anni sui giornali del movimento studentesco. Ancora studente del liceo classico “Sannazaro”, comincia a lavorare nelle nascenti radio libere napoletane. Durante gli anni della facoltà di giurisprudenza, lavora in vari giornali e televisioni private. Diventa praticante giornalista nel 1979 per il quotidiano Il Diario diretto da Massimo Caprara dove lavora prima alla redazione cultura e spettacoli e poi nella cronaca nera. Si interessa particolarmente di critica cinematografica e nel 1983 scrive insieme al critico Alberto Castellano il libro: Vita e Spettacolo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia per l’editore Liguori di Napoli, ricevendo una ottima accoglienza dai critici. Scrive inoltre saggi sulla comicità, sul doppiaggio ed altro per la Ubulibri. Dal 1984 al gennaio 1988 lavora al quotidiano Il Corriere dell’Umbria di Perugia dove si occupa di interni, cronaca nera e politica locale. Dal 1985 al 1988 ha collaborato con il quotidiano Il Mattino di Napoli come corrispondente dall'Umbria. Il 15 gennaio 1988 è assunto alla Testata Giornalistica Regionale del Lazio dove si occupa di cronaca nera e politica. Caposervizio nel 1992, passa nel marzo ’94 al Tg3 dapprima al coordinamento edizioni come caposervizio e successivamente come inviato di cronaca nazionale. Matura esperienze internazionali seguendo i conflitti nella ex Jugoslavia, nel Kosovo, in Afghanistan, Iraq. Ha seguito la rivolta in Albania del '96 e tutte le vicende albanesi post dittatura. Come inviato della redazione esteri del Tg3 realizza reportage in Zimbabwe, Repubblica del Congo, Sudafrica, Turchia, Algeria. In Afghanistan e Iraq segue tutta la fase postbellica. Ha vinto tra gli altri il premio “Testimone di Pace” di Ovada e il premio “Andrea Barbato” di Mantova. Nell’agosto 2006 è stato nominato corrispondente della Rai per l’Africa sub sahariana. In questa veste ha aperto la sede Rai di Nairobi, da dove si sposta per seguire le vicende del continente.

** Ernesto Paolozzi è nato a Napoli nel 1954. È stato borsista presso l’ Istituto Italiano per gli Studi Storici, fondato da Benedetto Croce. Vincitore della borsa di studio Francesco Compagna per gli Studi Meridionalistici. Nel 1992 è stato eletto Consigliere Comunale del Comune di Napoli. Ha fondato l'Associazione "G. Amendola" e la rivista "Studi Critici". È stato direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma per il triennio 1992 – 1995. Attualmente è componente del Comitato scientifico. Docente di Storia della Filosofia Contemporanea presso l’Università Suor Orsola Benincasa. Docente presso L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Presidente della Commissione per la Toponomastica del Comune di Napoli. Ha collaborato e collabora a riviste e quotidiani fra i quali: "Corriere del Mezzogiorno – Corsera"; "La Repubblica" – Napoli; "Nord e Sud"; "Rivista di Studi Crociani"; "Criterio"; "Prospettive 70"; "Mondoperaio"; "La Nuova Antologia"; "Libro Aperto".
Autore di vari saggi e volumi tra i quali: "I problemi dell’estetica italiana", Napoli,1985. "Vicende dell’estetica", Napoli, 1989. "Guido Cortese",(collaborazione con Raffaello Franchini), Napoli, 1990. Ha pubblicato il "Carteggio Croce – Mann", Napoli, 1991. "L’identità liberale in una società in trasformazione", Napoli, 1992. "Il liberalismo come metodo", Roma, 1995. "La rivoluzione ingenerosa", Napoli, 1996. Ha curato l’edizione del "Profilo di Tocqueville" di Vittorio De Caprariis. Napoli, 1996. "Benedetto Croce", Napoli, 1998. (trad. inglese a cura di Massimo Verdicchio in via di pubblicazione). "Libertà, democrazia, repubblica", Napoli, 2000.
Con Valerio Zanone ed altri autori: "Critica della ragion liberale", Napoli, 2000. "L’estetica di Benedetto Croce", Napoli, 2002.(trad. russa a cura di Svletana Maltzeva).
Con Giuseppe Gembillo e Giuseppe Giordano:"Liberalismo, scienza, complessità", Messina, 2004. "Il Partito democratico e l'orizzonte della complessità", Napoli, 2007. "Bioetica: una scienza per la vita", Milano, 20009.