Nell’ambito di un’inchiesta sul problema della “censura cinematografica”, pubblicata su “L’Opinione del Mezzogiorno” di venerdì 18 febbraio 1983, ebbi l’occasione di avere un breve colloquio sull’argomento con Raffaello Franchini.
Ecco il testo dell’intervista.
- Qual è il suo giudizio sulla censura cinematografica?
Sono contrario ad ogni forma di censura da parte dello Stato perché non vedo come ai censori possa essere affidato il compito di custodi della morale: né, d’altra parte, è sempre vero che essi siano in grado di sapere che cosa è morale. L’idea che la censura possa prevenire i reati è un’idea che non mi convince affatto. Mentre tutti sono in grado di definire bene che cosa è un furto o che cosa è una rapina, non è detto che tutti siano in grado altrettanto bene di definire un concetto come quello di “comune sentimento del pudore”. Il reato, caso mai, dovrebbe essere perseguito d’ufficio dal magistrato così come, del resto, prescrive la stessa Costituzione: ma è noto che ciò che prescrive la Costituzione non sempre è applicato in realtà, né si traduce sempre in legge. Inoltre, bisogna tener presente anche un altro aspetto. Il rischio della censura è che le sue sconfitte, oramai quasi sempre scontate, si traducano spesso e volentieri in clamorose vittorie economiche per gli organizzatori e i finanziatori degli spettacoli censurati. Quindi io penso che, a parte il divieto degli spettacoli cinematografici rivolto ai minori (divieto tradottosi in realtà in divieto nei confronti dei maggiori i quali non andrebbero mai ad assistere a simili spettacoli pornografici) sia più giusto punire anziché reprimere il reato.
- Perchè?
Perché la repressione è sempre di per sé odiosa e lascia inevitabilmente perplessi. Inoltre essa conferisce alla vittima dell’azione repressiva l’aureola del martire. Solo la punizione, invece, quando naturalmente la magistratura sia in grado di svolgere con effettiva efficienza ed imparzialità i suoi compiti, può costituire un reale ed efficace deterrente per i reati.
- “Un’immagine artistica ritrarrà un atto moralmente lodevole o riprovevole – scriveva nel 1913 Benedetto Croce nel suo Breviario di Estetica – ma l’immagine stessa, in quanto immagine, non è né lodevole né riprovevole moralmente. Non solo non v’ha codice penale che possa condannare alla prigione o alla morte un’immagine, ma nessun giudizio morale, dato da persona ragionevole, può farla suo oggetto…”. È una lucida rivendicazione dell’autonomia dell’arte da ogni moralismo e della sua incensurabilità in quanto arte. Lei che cosa ne pensa?
Sì, va bene; ma chi, nel nostro caso, stabilirà che si tratta d’immagine artistica e non pornografica? Nemmeno un perito potrebbe farlo. E allora per il poeta (se è un poeta) non c’è che correre il rischio dell’incriminazione.
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