lunedì 15 febbraio 2010

Aldo Maiorano: “L’assenza di inganno e mistificazione è già terapeutica” A Marco Lombardo Radice e a tutti i… “raccoglitori nella segale”


“L’assenza di inganno e mistificazione è già terapeutica” A Marco Lombardo Radice e a tutti i… “raccoglitori nella segale”

“- Sai cosa mi piacerebbe fare? – dissi. – Sai cosa mi piacerebbe fare? Se potessi fare quell’accidente che mi gira, voglio dire.
- Cosa? Smettila di bestemmiare.
- Sai quella canzone che fa “Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno?” Io vorrei…
- Dice “Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno” – disse la vecchia Phoebe. – È una poesia. Di Robert Burns.
- Lo so che è una poesia di Robert Burns.
Però aveva ragione lei. Dice proprio “Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno”. Ma allora non lo sapevo.
- Credevo che dicesse “E ti prende al volo qualcuno”, - dissi. – Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia.”
-
“Il giovane Holden”, protagonista del romanzo e personaggio “ormai famoso e proverbiale” non solo negli Stati Uniti, “eroe eponimo di tutta una generazione”, fu il titolo scelto dalla casa editrice Einaudi, nel 1961, per l’ormai celebre capolavoro di J. D. Salinger. Il titolo originale del libro, pubblicato nel 1951, era, tuttavia, “The Catcher in the Rye”, forse traducibile in italiano con “L’acchiappatore nella segale” o “Il raccoglitore nella segale”.

“Il raccoglitore nella segale” è anche il titolo di uno degli scritti di Marco Lombardo Radice (Roma 1949 – Pieve di Cadore 1989), poi raccolti postumi nel volume “Una concretissima utopia”, pubblicato nel 1991 da Linea d’Ombra a cura di Marino Sinibaldi, che si conclude riportando proprio una celebre frase del Giovane Holden di Salinger. Figlio del matematico Lucio Lombardo Radice e nipote di Pietro Ingrao, Marco Lombardo Radice, medico specializzato in neuropsichiatria infantile, si dedicò nella sua vita, sia nella sua attività di ricerca che in quella clinica e professionale, alle problematiche dei bambini e degli adolescenti e del disagio mentale in età evolutiva. Allievo di Giovanni Bollea e, già giovanissimo, Direttore del reparto adolescenti dell’Istituto romano di neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli, nel 1984 fonda l’Associazione per il sostegno e il trattamento di minori con problemi psicologici e psichiatrici. Autore di testi e saggi scientifici, tra cui “Fra ragione e passione: cura e costrizione nel trattamento psichiatrico dei minori”, “Crisi ed emergenza: il senso dell’intervento”, “Sul concetto di crisi in età evolutiva” (con A. Giannotti e C. Saccu), “Adolescence and Perversions” (con M. Grasso), eclettico e creativo, si dedicò anche alla narrativa e all’esperienza letteraria, pubblicando con Lidia Ravera “Porci con le ali” (Savelli, 1976), “Cucillo se ne va” (Savelli, 1978), “Lavoro ai fianchi”, con Luigi Manconi (Mondatori, 1980), curando, altresì, la pubblicazione di “Memorie. Dalla clandestinità un terrorista non pentito racconta” (Savelli, 1981).
Alla memoria di Marco Lombardo Radice e ispirato alla raccolta postuma di “Una concretissima utopia”, è dedicato il film di Francesca Archibugi “Il grande cocomero” (1993), in cui Sergio Castellitto, con sensibilità e intensità, interpreta il personaggio di Arturo, neuropsichiatria infantile antiaccademico e problematico, ispirato alla figura di Marco Lombardo Radice, morto d’infarto a soli quarant’anni nel 1989.
Lidia Ravera, con la quale aveva scritto “Porci con le ali”, lo ricorda così, in un articolo pubblicato su L’Unità, col titolo “Io e Marco con le ali”:
“Marco era una montagna d’uomo: un corpaccione imponente coronato da una testa di ragazzo, ricciuta, un viso dai lineamenti, paradossalmente, delicati…pareva sempre appena alzato dopo una notte trascorsa in un pagliaio, la camicia pulita e stropicciata, fuori dai calzoni, fluida, come fosse
dotata di una propria anarchica forza di reazione alle regole dell’abbigliamento… “Marco è morto d’infarto nel 1989, un giorno di luglio, mentre era in montagna con la sua ex-moglie, Marina. Al suo funerale, in un piccolo cimitero vicino a Cortina, l’unico ad avere più di 40 anni era Pietro Ingrao, lo zio. Eravamo, noi, tutti trentenni, e c’erano fra noi molti giovanissimi, devastati dalla disperazione: erano i ragazzi di cui, a vario titolo, Marco si occupava. I ragazzi che amava. Psichiatra, guru, maestro, padre, fratello, compagno. Non ho mai visto tanta gente tanto giovane e tanto infelice al funerale d’un uomo”….”Marco ascoltava i più giovani. Aveva un modo di ridere, pronto e severo. La sua generosità era assoluta, totale…era per i più fragili, quelli che rischiavano di restare indietro, i sofferenti, anime appena sgusciate dal guscio sottile di infanzie poco protette o martoriate. Era una vocazione, ed era una professione”.

Nessun commento:

Posta un commento