venerdì 5 febbraio 2010

L'Epoca delle passioni tristi

L’Epoca delle passioni tristi

L’analisi della crisi nella crisi della società contemporanea, delineata da M. Benasayag nel suo “L’Epoca delle passioni tristi”, mi sembra molto chiara, lucida e penetrante. I testi che ho già segnalato, in particolare quelli di Umberto Galimberti e Franco Berardi, ne sintetizzano, a livello teorico, i concetti chiave e i principali nuclei tematici e argomentativi in modo altrettanto chiaro, preciso e brillante.
Li darò, pertanto, per acquisiti. Io vorrei esporre solo qualche iniziale e più personale considerazione e riflessione sul libro e sulle impressioni che mi ha suscitato. È uno dei libri che, ultimamente, mi hanno più coinvolto. Me ne sono chiesto il perché.

Molto schematicamente riassumo le tre risposte che sono riuscito a darmi, rispettivamente a livello emotivo e personale, di partecipante al gruppo di lettura e professionale:

1. Mi ha sicuramente molto coinvolto il “dramma nel dramma” vissuto dall’autore. La sua prima moglie, com’è noto, era scomparsa nel buco nero dei desaparecidos, sotto la dittatura argentina. Recentissima, invece, la vicenda (davvero, per molti versi, una tragica fatalità) della sua attuale compagna, la giornalista di Liberation” Florence Aubenas, scomparsa anche lei nel nulla, col suo autista iracheno, la mattina del 5 febbraio scorso nel nuovo buco nero dell’inferno della guerra in Iraq. Insieme alla sorte drammatica della nostra Giuliana Sgrena (c’ero anch’io a Roma il 19 febbraio scorso, con decine e decine di migliaia di persone mobilitatesi per la liberazione di Giuliana, della pace sequestrata e, forse, proprio per reagire alle passioni tristi dell’impotenza e della rassegnazione), questi eventi hanno sicuramente contribuito a drammatizzare la lettura del testo e a farmela vivere non come un’esperienza meramente astratta, sul piano intellettivo e cognitivo, ma come un’esperienza emotiva molto intensa e coinvolgente.

2. Ho partecipato all’incontro del Gruppo di Lettura di Cologno su “Il tempo di cambiare” di Paul Ginsborg, un altro bel libro di cui mi sento di raccomandare vivamente la lettura. Avevo, in quell’occasione, segnalato come il libro di Ginsborg fosse nato da “un’esperienza di impegno civile vissuta a livello locale”, quella del “Laboratorio per la democrazia” di Firenze, in stretta connessione con “la grande paura” globale determinatasi nel mondo dopo l’11 settembre 2001 e le guerre che ne sono seguite. E sottolineato che, come scrive Ginsborg, “le minacce cumulative all’esistenza umana (terrorismo, distruzione nucleare, abusi ecologici) hanno introdotto una nuova relazione tra paura e tempo. Assai più di quarant’anni fa si ha la sensazione che il tempo si stia esaurendo…Come risultato di questo assommarsi di angosce, in moltissime persone si rafforza l’inquietante combinazione di due sensazioni: urgenza e impotenza”. Ebbene, l’impotenza, la rassegnazione, la disgregazione e la mancanza di senso sono proprio quelle passioni tristi, di spinoziana memoria, di cui discorre Benasayag nel suo libro! Le risposte di Ginsborg alla domanda “Come possiamo arginare la marea” e di Benasayag a quella da egli stesso posta, nel capitolo conclusivo, “Come resistere a questo mondo di bruti”, pur nella diversità degli approcci, degli stili e della personalità dei due autori, corrono parallele. “Procedere a una riappropriazione”, “riprendere cioè il controllo della qualità delle nostre vite e del contesto in cui le viviamo” “in posizione fortemente critica rispetto al modello di modernità prevalente nei paesi sviluppati” ed “esportato ed imposto al resto del mondo. Dobbiamo partire da noi stessi, non in modo puritano o fanatico o provvisti dai sensi di colpa, ma realisticamente…ripensare le scelte che attuiamo su base quotidiana, la vita familiare che conduciamo, il genere di beni che consumiamo, la qualità della democrazia che possiamo esercitare”. La passività e l’indifferenza (a livello individuale e locale) contribuiscono sommamente allo sgomento collettivo (a livello globale).

Ginsborg propone tutta una serie di prassi alternative a livello individuale,familiare e civico come possibili vie d’uscita da quella crisi nella crisi di cui parla anche Benasayag, il quale su un altro piano, psicologico o psicoanalitico, suggerisce la creazione di una serie di pratiche cliniche e di reti di relazioni personali, fondate sui legami emotivi ed affettivi, sui principi di solidarietà, di responsabilità e libertà, intesi come condivisione di passioni gioiose, le uniche capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società neoliberista dell’individualismo tende a rinchiuderle.

3. Il libro di Benasayag parla ai giovani e a “tutti quelli che ne hanno cura”. Ed effettivamente si tratta di un saggio fondamentale per gli insegnanti e gli educatori in generale. In particolare, per quelli di scienze sociali. “C’è lucidità nella descrizione della crisi, come passione sui percorsi possibili di uscita dal patchwork dei valori. È un saggio che potrebbe fare da sfondo per il triennio: dagli elementi forti della modernità/modernizzazione alla sua crisi, alla consapevolezza di vivere, oggi, in un altro mondo che va indagato (mondo che possiamo chiamare post-moderno o come altro ci pare ma che è altro rispetto alla modernità e che è soprattutto vissuto/subito dai giovani, i nostri interlocutori)”. Mi si perdoni la citazione di Lionello Bettin, con cui concordo pienamente, ma anch’io, del resto, insegno filosofia e scienze dell’educazione, come si diceva una volta, o scienze sociali e/o umane, come si preferisce dire oggi, in un istituto di istruzione superiore. Ed è proprio questo il terzo motivo per cui il libro mi ha così appassionatamente coinvolto, sfondando una porta in un certo senso già spalancata nel mio lavoro quotidiano. Non a caso ho già consigliato la lettura del libro di Benasayag in un paio di classi del triennio, presentandone brevemente i contenuti e i nuclei tematici e concettuali e, non a caso, in una classe quinta ho avviato, fin dall’inizio del corrente anno scolastico, un laboratorio di lettura su due testi di Edgar Morin, per molti versi elettivamente affini, come “La testa ben fatta” e I sette saperi necessari per l’educazione del futuro” , nella consapevolezza delle nuove sfide della complessità e della caduta delle precedenti certezze, cui siamo chiamati a rispondere nel passaggio epocale dalla modernità del futuro-promessa alla post-modernità del futuro-minaccia.

Tuttavia, la pedagogia non è solo filosofia o scienza dell’educazione ma anche e, forse, soprattutto, arte, relazione, clinica del legame, capacità di risvegliare – al di là di ogni malinteso atteggiamento autoritario o permissivo o seduttivo e utilitaristico/contrattuale – motivazioni ed interessi profondi, il desiderio e la curiosità di conoscere se stessi e il mondo, produttori di vero ed autentico apprendimento, in un clima di solidarietà e di responsabilità/libertà. Come scrive anche Edgar Morin, educare è più di una funzione o professione. “Il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a un semplice impiegato. Il carattere professionale dell’insegnamento porta a ridurre l’insegnante all’esperto. L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione.

Una missione di trasmissione.

La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un’arte.

Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento:l’eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L’eros permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. È ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l’amore dell’allievo e dello studente.

Là dove non c’è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l’insegnamento.

La missione suppone evidentemente la fede, in questo caso la fede nella cultura e nelle possibilità della mente umana.

La missione è dunque molto elevata e difficile, poiché suppone, nello stesso tempo, arte, fiducia e amore. Eros, missione e fede costituiscono il circuito ricorsivo della trinità laica, in cui ciascun termine alimenta l’altro”.

Come ricorda Morin, Kleist scriveva in una lettera a un’amica “Il sapere non ci rende migliori né più felici”; ed Eliot si chiedeva “Dov’è la conoscenza che perdiamo nell’informazione? Dov’è la saggezza che perdiamo nella conoscenza?”. Morin propone un insegnamento educativo, capace di andare oltre le connotazioni di lavorazione e conformazione strettamente cognitive (connaturate al concetto di formazione/insegnamento), incoraggiando l’autodidattica, destando, favorendo l’autonomia dello spirito, la trasmissione non di puro sapere ma di una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione fragile e di aiutarci a vivere, pensando in modo aperto e libero; pur nella consapevolezza che nella parola educazione c’è al tempo stesso un troppo e una mancanza”. E conclude: “Ma l’educazione può aiutare a diventare migliori e, se non più felici, ci insegna ad accettare la parte prosaica e a vivere la parte poetica delle nostre vite”.

Concludo anch’io, ma non prima di rinviare alla lettura di un piccolo ma prezioso libro, “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupery, che rappresenta per me una sorta di metafora laica dei principi a cui dovrebbe ispirarsi la relazione educativa. Per resistere a questo di mondo di bruti, ci vuole un po’ di coraggio, pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, ma innanzitutto la capacità di riscoprire, senza confusioni né malintesi cedimenti di tipo amicale e/o seduttivo al proprio ruolo di adulti e di educatori, la profonda necessità di creare dei legami ” e delle relazioni fondate sul tempo condiviso e sulla cura.

Senza, tuttavia, mai dimenticarsi che, come ha scritto Paolo Crepet, di cui consiglierei la lettura di “Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e sull’adolescenza”, Einaudi, c’è anche un uso malinteso e paradossale del prendersi cura, “quale esercizio non di amore ma di smisurato egoismo, perché se certe persone non avessero delle vittime di cui prendersi cura, non esisterebbero.”

Aldo M.

da Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupery

In quel momento apparve la volpe.

“Buon giorno”, disse la volpe.

“Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

“Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo….”

“Chi sei?” domandò il piccolo principe, ” sei molto carino…”

“Sono la volpe”, disse la volpe.

” Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.

“Ah! scusa “, fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

” Che cosa vuol dire addomesticare?”

” Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe” che cosa cerchi?”

” Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe.

” Che cosa vuol dire addomesticare?”

” Gli uomini” disse la volpe” hanno dei fucili e cacciano. E’ molto noioso!

Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?”

“No”, disse il piccolo principe. ” Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?”

” E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…”

” Creare dei legami?”

” Certo”, disse la volpe. ” Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma.se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.”

” Comincio a capire”, disse il piccolo principe. ” C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”

“E’ possibile”, disse la volpe “capita di tutto sulla terra…”

“Oh! Non è sulla terra”, disse il piccolo principe.

La volpe sembrò perplessa:

” Su un altro pianeta?”

” Sì”

” Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?”

” No”

” Questo mi interessa! E delle galline?”

” No”

” Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe.

Ma la volpe ritornò alla sua idea:

” La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me .Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita,

sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in

fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color d’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai

addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:

” Per favore …..addomesticami”, disse.

” Volentieri”, rispose il piccolo principe, ” ma non ho molto tempo, però.

Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

” Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe.” gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”

” Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.

” Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe.

” In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino….”

Il piccolo principe ritornò l’indomani.

” Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.

” Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità.

Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”.

” Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.

” Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe.

” E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io

mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”.

Così il piccolo principe addomesticò la volpe.

E quando l’ora della partenza fu vicina:

“Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”.

” La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”

” E’ vero”, disse la volpe.

” Ma piangerai!” disse il piccolo principe.

” E’ certo”, disse la volpe.

” Ma allora che ci guadagni?”

” Ci guadagno”, disse la volpe, ” il colore del grano”.

soggiunse:

” Va a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”.

“Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto”.

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente” , disse.

” Nessuno vi ha addomesticato e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre.

Ma ne ho fatto il mio amico e ne ho fatto per me unica al mondo”.

E le rose erano a disagio.

” Voi siete belle, ma siete vuote”, disse ancora. ” Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei

che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro, Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato

lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa” E ritornò dalla volpe.

” Addio”, disse.

“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

” L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

” E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.

“E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

” Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare.

Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”

” Io sono responsabile della mia rosa….” Ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

Nessun commento:

Posta un commento