venerdì 24 luglio 2015
Tra arte gestaltica e arte programmata: due brevi note critiche di Lea Vergine e Filiberto Menna sulla prima mostra personale di Luigi Pezzato alla Modern Art Agency di Lucio Amelio a Napoli
In occasione della prima mostra personale di Luigi Pezzato, allestita dal 10 al 22 dicembre 1966, alla Modern Art Agency di Napoli, nella sede originaria di Parco Margherita, inaugurata nel 1965 da Lucio Amelio quale galleria d’arte “dedicata ai linguaggi e alle pratiche artistiche più sperimentali”, fu pubblicato un piccolo catalogo con fotografie di Luciano Costa. Le foto ritraevano alcuni lavori realizzati da Luigi Pezzato, allora già trentacinquenne: riproduzioni di alcuni oggetti quali, ad esempio, un “oggetto cibernetico con luminosità in funzione dell’aria erogata” del 1965 e un “modulare quadrico” del 1962, un oggetto in materia plastica riprodotto in 1000 esemplari, proprio in occasione della mostra personale, per le Edizioni della Modern Art Agency di Napoli. Una foto di plurime immagini riflesse in uno specchio dello stesso Luigi Pezzato, con alcune scarne annotazioni biografiche, “Luigi Pezzato è nato nel 1931 a Napoli, dove dal 1954 insegna all’Istituto d’Arte”, e un sintetico elenco di partecipazioni a mostre e premi vinti, dal 1951 al 1966, arricchivano il catalogo. A completarlo due brevi schede, redatte dallo stesso artista: la prima – molto tecnica e sintetica - sulle principali proprietà e caratteristiche dell’oggetto cibernetico del 1965 e la seconda, invece, una sorta di vera e propria dichiarazione di intenti sugli scopi della propria indagine sulla realtà fenomenologica e sui propositi della sua ricerca artistica, che senza escludere “una componente ludica” dei suoi oggetti, destinati ad essere fruiti in edifici e luoghi pubblici, ne sottolineava la loro oggettiva esecuzione meccanica, “con processi di carattere iterativo dove ogni fase lavorativa venga tassativamente controllata ed organizzata in modo tale da permettere una vera e propria produzione in serie”.
Il “cuore” del catalogo sono le due note critiche di Lea Vergine e Filiberto Menna. Lea Vergine parte dalla premessa che, trattandosi di una prima mostra personale di un autore che non è più “un diciottenne di belle speranze che ha davanti a sé tutta la vita”, ma di “un accanito e paziente ricercatore ormai oltre i trent’anni”, le condizioni e i rischi di “giocarsi una carta sbagliata” e di esporsi traumaticamente alle critiche sono maggiori e particolarmente difficili. “Questo premesso, a solo titolo di buon augurio e di franca solidarietà, - scrive poi la nota critica d’arte – “esaminiamo le cartucce della trincea di Luigi Pezzato” da lei presentato come un “individuo antipartenopeo per eccellenza, solitario, schivo, isolato, noto sino a pochi mesi fa solo come insegnante all’Istituto d’Arte di Napoli”. Lea Vergine riconosce, tuttavia, come sia ormai in realtà già da “parecchio, comunque, che Pezzato costruisce, disfa e riprova nel suo laboratorio al Calascione” per approdare ora, con le sue “superfici che riflettono deformate le sagome dei visitatori”, ad una proposta di comunicazione visiva a livello estetico “nell’ambito dei rapporti tra percezione ed illusione”. Lea Vergine colloca tale ricerca di Luigi Pezzato all’interno della “poetica” che “è, per sommi capi, quella gestaltica”. “I suoi oggetti sono la registrazione delle strutture (evidenti e affatto palesi) nelle quali si situa la nostra condizione” di cui Pezzato “tende a darci una realtà di ordine semantico”, tramutando “in entità culturali le entità naturali che manipola”, anche se “a volte i materiali di cui si serve posseggono già di per sé un significato: il cubo, il quadrato, la sfera”. Lea Vergine conclude la sua nota critica osservando come, “al di là di un’auspicabile precisione di rifinitura”, Luigi Pezzato – da lei definito come “il nostro esordiente” – “riesca a stabilire con le sue costruzioni un rapporto di significato”.
Filiberto Menna, nel suo contributo critico, parte invece da alcune riflessioni di carattere filosofico ed estetico sul significato serissimo del gioco, un “apparente paradosso” negato dalla cultura imprenditoriale dei “pioneri del capitalismo”, i quali hanno finito per divulgare “un’idea mitica del lavoro” per cui “solo quest’ultimo ha dignità e tanto più se si accompagna allo sforzo, alla fatica e alla pena”, contrapponendola a ciò che si fa “con levità, con gioia, per il puro piacere di farla” che “non è un lavoro, quindi non è una cosa seria”. Filiberto Menna osserva come il “progresso tecnico, liberandoci progressivamente dalla fatica e dai compiti più strettamente meccanici inerenti ad ogni tipo di lavoro, ci libererà anche da quel sillogismo puritano” favorendo sempre di più un’auspicabile “integrazione”, come già suggerito da Rosario Assunto “in suo libro felicissimo di qualche anno addietro”, tra i “due termini del binomio, dell’hobby e del job”, tra libertà ludica e necessità e costrizione del lavoro. Secondo Filiberto Menna alla “base dell’opera di Luigi Pezzato” c’è proprio il gioco inteso in questo modo, nel suo significato più profondo e filosofico, appunto, quale “rapporto tra libertà e necessità” che “racchiude in sé stesso la regola del proprio libero e imprevisto divenire”. I “congegni” costruiti da Pezzato, infatti, “sono programmati con rigore (oltre che realizzati con cura ed estrema pulizia), ma la legge interna che li governa consente alla cosa di assumere una molteplicità pressoché infinita di forme”. Filiberto Menna iscrive, a tal proposito, l’opera di Pezzato nell’ambito dell’arte programmata. “Come ogni arte programmata, cioè, anche l’opera di Pezzato concilia la regola e il caso, la legge e l’azzardo, e propone se stessa come trattenimento, come spettacolo e gioco nel senso più profondo che possiamo dare a questi termini, ossia come mezzo di liberazione e di riscatto se non dal tragico almeno dal necessario quotidiano”. Filiberto Menna conclude la sua nota sottolineando come l’opera di Pezzato “possiede un’altra caratteristica fondamentale” dell’arte programmata, “ossia la trasferibilità delle sue strutture in ambiti di più vasta portata sociale, in cui “l’oggetto iniziale dell’artista, proprio perché è realizzato in base a dati misurabili e costanti, può rivivere senza perdere la sua struttura fondamentale (anzi, proprio in virtù di essa) in un’opera più complessa” contribuendo così alla “realizzazione di quegli spazi estetici totali cui dovrebbe tendere la collaborazione di artisti, architetti e urbanisti.”
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