lunedì 12 aprile 2010

Luciano Bianciardi e un ricordo del “papa laico” Benedetto Croce

Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971) è stato giornalista, traduttore di scrittori americani quali Miller, Faulkner, Steinbeck e London, scrittore. Tra le sue opere fondamentali ricordiamo: “Il lavoro culturale” (1957), “L’integrazione” (1960), “La vita agra” (1962), che gli diede fama e successo, nonché i suoi romanzi di argomento storico come “La battaglia soda” (1964) e “Aprire il fuoco” (1969).
Ne “L’alibi del progresso”, edito da "ExCogita" con una prefazione di Dario Fo, che ne rammenta affettuosamente “la sua autoironia, la capacità si sapersi prendere in giro, ridere di sé…del mondo e del modo in cui si vive, dei propri tic e anche…dei propri errori”, sono raccolti alcuni dei suoi scritti giornalistici ed elzeviri. Ce n’è uno, in particolare, che mi piacerebbe sottrarre all’oblio del tempo e degli anni. Pubblicato su “La Gazzetta di Livorno” del 20 novembre 1953, nella rubrica “Incontri provinciali”, col semplice titolo “Ricordo di Croce”, in esso Luciano Bianciardi rendeva esplicito omaggio al filosofo di Napoli, ad un anno dalla sua morte.
L’articolo si apriva con una citazione di Croce, tratta dal “Contributo alla critica di me stesso”, Bari, Laterza, 1945, nuova edizione e, dopo aver ricordato la crociana deplorazione della I guerra mondiale “come un inutile massacro, capace peraltro di distruggere le basi stesse della civiltà europea”, sottolineava l’ “ alto posto nella storia del pensiero” di Croce e la sua “professione di fede politica nella cultura”, da lui profusa, con profondo senso del dovere, nella sua “opera di studioso e di cittadino insieme” nel lavorare alla “Critica”. La rivista crociana – rammentava ancora il Bianciardi – era “l’unica voce che durante l’oscurità fascista si levasse liberamente, qua da noi. Gli scritti del Croce e dei suoi migliori seguaci, i suoi libri (quei severi tomi con la copertina color marrone) erano diventati, per tanta parte della gioventù colta italiana, altrettanti livres de chevet, e si cercavano e si leggevano quasi in segreto. Molti di noi, forse tutti, siamo passati attraverso la grande esperienza crociana; questo perché la cultura italiana è stata, per qualche tempo, crociana senz’altro, od almeno ha fatto sempre i suoi conti col pensiero del filosofo napoletano; anche il suo maggior avversario, quello che purtroppo non ha potuto misurarsi con lui su di un terreno di parità, Antonio Gramsci.”
Quell’Antonio Gramsci – aggiungiamo noi – a cui lo stesso Croce, d’altro canto, volle rendere esplicito omaggio: quando, nel 1947, dopo l’uscita delle “Lettere dal carcere” quale primo volume delle “Opere” di Gramsci edite da Giulio Einaudi, riconosceva che il “libro appartiene anche a chi è di altro o opposto partito politico” e che “come uomo di pensiero Gramsci fu dei nostri, di quelli che nei primi decenni del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente”.
Non a caso, nel prosieguo del suo articolo, Luciano Bianciardi si soffermava a sottolineare proprio la grandezza dell’”apporto del Croce allo svecchiamento e alla sprovincializzazione della nostra cultura nazionale”, contro il Positivismo dominante verso la fine dell’Ottocento, con la sua “filosofia inferiore e grossolana”, e attraverso l’introduzione scientifica ed originale in Italia della grande filosofia classica tedesca e del pensiero hegeliano, “anche e soprattutto un nuovo strumento di pensiero”, grazie alla “logica dialettica”. Bianciardi non mancava di ricordare, al tempo stesso, come Croce mettesse a frutto anche “la grande lezione del De Sanctis, nella sua grande Estetica che in Italia è la prima teoria dell’arte compatta e rigorosa” e come riprendesse “lui napoletano, la grande tradizione del pensiero meridionale, rinvenendo nella corrente moderna dell’idealismo i germi maturati del pensiero di Giovan Battista Vico”. “ Croce” – continuava Bianciardi – “fu certamente, nel primo novecento, la voce più moderna della nostra cultura: non lasciò quindi intentata nemmeno l’esperienza marxista, che gli si presentò nelle lucide ed appassionate lezioni romane di Antonio Labriola. Vero è che il Croce non accettò quella dottrina, ed anzi la osteggiò, ma l’inserimento dell’utile, accanto ai tre valori tradizionali (bello, vero, buono) dimostra che anche questa lezione non rimase per lui senza profitto”.
L’elogio di Croce, tracciato da Bianciardi, proseguiva poi sottolineando come Croce, “che pur aveva esordito come ricercatore erudito di storie napoletane”, uscisse per primo “dalle secche della filologia erudita”, spaziando “in ogni campo della storiografia politica e letteraria”, e come, sia pur con “disuguaglianze e disarmonie” molti suoi scritti restassero “ancora insuperati, dalla “Storia d’Europa nel secolo XIX” a “Poesia e non poesia”, dal saggio su Goethe a quelli sulla letteratura della nuova Italia”.
Nella successiva parte del suo scritto, Bianciardi passava poi, dialetticamente, ad enumerare anche “i limiti” di Croce, quasi una conseguenza inevitabile del suo dominio per un cinquantennio sulla cultura italiana, di cui fu “insieme la guida e il moderatore”. Bianciardi individuava tali limiti “non soltanto nell’astrattezza e nella insufficienza…di certi saggi critici (soprattutto quello sulla poesia di Dante) ma anche nella relativa angustia dell’orizzonte critico del Croce, che non volle e non potè intendere (qualunque ne sia il valore) la letteratura e la poesia del Novecento. Il processo di sprovincializzazione che il Croce inaugurò in Italia non si potè quindi compiere integralmente; e la sua attività di organizzatore di cultura (cioè come direttore e nume delle edizioni Laterza) finì col determinare una sorta di nuovo provincialismo, col formare un nuovo circolo regionale, napoletano e pugliese, contro i tradizionali circoli romani, milanesi e fiorentini”.
Vero è che il Bianciardi non dimenticava di attribuire tali limiti anche alla complicità di circostanze esterne “non ultima, fra queste, il fascismo”, che non permisero di allargare ulteriormente “l’esperienza europea che la nostra cultura stava compiendo” o piuttosto ai “pedissequi ripetitori del crocianesimo”. “Infine” – annotava Bianciardi – “pur aprendo a tanti giovani colti le vie dell’opposizione e del culto della libertà, il Croce non seppe dare all’antifascismo ed alla “religione della libertà” un senso più ampio, totale”.
Fin qui l’analisi critica di Bianciardi, che non si può fare a meno di condividere sia pure nella sua estrema sintesi giornalistica. Ma il suo bilancio finale è altrettanto chiaro ed esplicito, perché Luciano Bianciardi concludeva il suo articolo con tali, testuali parole:
“Ma, a conti fatti, la nostra esperienza crociana è stata per molte ragioni salutare e non si può non consigliarla ancora ai giovani d’oggi. È un’esperienza fruttuosa, una sorta di vaccino mentale contro ogni possibile ritorno oscurantistico, contro la incultura, che è il peggiore di tutti i mali. Poi i giovani cammineranno oltre, come è accaduto a tutti noi. Ognuno scoprirà una strada più moderna, e la percorrerà da solo, o con altra guida: ma porterà sempre con sé un grato ricordo di “don Benedetto”, del vecchio maestro che anche noi, questa volta con scherzo affettuoso, chiameremo il “papa laico”.
Lo scritto di Luciano Bianciardi mi ha richiamato alla memoria un articolo di Norberto Bobbio, pubblicato, col significativo titolo “Un maestro di questo secolo”, nel volume edito da L’Opinione, nel 1978, “Benedetto Croce: una verifica”, in occasione del 25° anniversario della morte del Filosofo. In quello scritto Norberto Bobbio annoverava, tra i suoi maestri ed autori, Croce e, dopo aver ripercorso brevemente la sua personale esperienza di lettore del filosofo napoletano e affermato il valore della sua lezione per le generazioni precedenti e per la sua generazione, “forse l’ultima”, si chiedeva:
“Ma oggi?...Mi è accaduto spesso di paragonare la mia generazione a quella dei nostri figli che non ha avuto maestri. Non li ha avuti o non li ha voluti? Li ha bruciati (in effigie) e li ha vilipesi (non soltanto in effigie). Ma erano veri maestri? Ne dubito: durano due o tre anni e poi vengono dimenticati. Non mi domando se il non avere maestri li renda più liberi e felici, come essi credono, o più sventurati e più disorientati, come credo io. So soltanto, per mia esperienza, che poter contare su una bussola permette di navigare con maggiore sicurezza nel gran mare della storia, e ci preserva dalla tentazione di tornare ogni volta daccapo”.
Sapranno le giovani generazioni affrontare i problemi nuovi e sempre più complessi della realtà contemporanea, come potranno, e se sapranno, con le loro sole forze? O il triste spettacolo dei tempi in cui viviamo è, come prefigurava Norberto Bobbio, proprio la conseguenza dello smarrimento di ogni bussola e di veri ed autentici maestri?

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